Durante l’anno di grazia 1969 c’era in America un signore chiamato John Cameron Fogerty che cantava e suonava la chitarra e un gran numero di altri strumenti in un gruppo che si chiamava Creedence Clearwater Revival. Creedence era un nome di persona (pare che la persona in questione si chiamasse Creedence Newball), Clearwater era stato ispirato da uno spot televisivo sulla pulizia dei fiumi (diceva “It’s cool, clear water”), mentre Revival era indicativo del modo del gruppo di intendere le tradizioni e le radici di tutta la musica che potesse essere passata sotto il termine “americana”. In quel periodo l’ispirazione di John e dei suoi compagni Tom, Doug e Stu era all’apice e continuava a sfornare una serie impressionante di album e di singoli di livello assoluto, tra cui questo gioiello intitolato “Willy and the Poor Boys”.
Sono dieci episodi, tutti (tolto forse “Poorboy Shuffle”, poco più di un’improvvisazione folk) di qualità enorme, a cominciare da “Down on the Corner”, probabilmente uno dei più grandi ever-green di sempre, “It Came Out of the Sky”, ennesimo esempio di come deve essere un brano rock’n’roll, semplice, diretto e potente allo stesso tempo. La cover di turno è “Cotton Fields” di Huddie Ledbetter, una canzone che tratta di schiavitù dei neri che coltivavano i campi di cotone. “Feelin’ blue” è una swamp-song incisiva e dal riff chitarristico essenziale tipico di John Fogerty. Con “Fortunate Son” è rock’n’roll ruvido e con la voce di John Fogerty sporca e micidiale al tempo stesso. “Questa è una country song che ho scritto poco tempo fa”. Con queste parole John usava introdurre in concerto “Don’t Look Now”, un veloce country di poco più di due minuti. Uno dei tanti apici dell’ album è il meraviglioso adattamento di una tradizionale flok song americana, “The Midnight Special”, un pezzo che probabilmente doveva essere passato anche dalle parti di Woody Guthrie (non ne ricordo l’autore, ma forse era lui), canzone che parla di treni, di stazioni e di vita povera. Lo strumentale “Side O’ the Road” è un esempio del grande affiatamento della band, grandi la chitarra solista di John e la precisione e la metronomia del basso di Doug e della batteria di Stu. La conclusiva “Effigy” è un rock-blues di grandissimo impatto che lascia spazio anche ad improvvisazioni chitarristiche (mai sopra le righe, per la verità, e sempre dentro certe coordinate come era tipico dei CCR).
Un disco assolutamente fantastico, che ogni buon affezionato della musica americana deve avere nella sua discoteca personale. Ecco, si parlava di pezzi semplici e diretti. Probabilmente era proprio la semplicità la prerogativa numero uno dei CCR, potrebbe sembrare un limite ma in musica non lo è assolutamente, ricordiamoci che essere semplici in musica NON E’ assolutamente semplice, tutt’altro. Buon ascolto.
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