Romania 1987. Un qualunque scorcio gelido di un paese stravolto. Un paese amorfo, privo di ogni straccio di vita. Ci vorranno altri due anni per dare un po' di colore a questa terra. Ma sarà il rosso sangue della rivolta di Timisoara. Nessuno immagina che quel Natale se lo ricorderanno per sempre, tra carri armati presi d'assalto e bandiere bucate dall'ira dei manifestanti e dalle pallottole della Securitate.

Neanche Otilia e Gabita lo immaginano. Sono troppo impegnate a sperare un giorno migliore tra le mura ammuffite di un casermone per studenti universitari. Inutile dire che trattasi di due donne bellissime. Dotate di una dolcissima semplicità, venata troppo spesso da uno sguardo spento. Non riescono a sorridere in quanto impossibilitate a vivere. E in Romania imperava uno dei peggiori regimi dittatoriali mai immaginati, instaurati con il pretesto e sottolineo pretesto del comunismo.

La vita si consuma tra una ceretta, qualcosa di caldo per respingere la rigidezza obbligata delle temperature invernali. Manca l'elettricità a volte. E anche l'acqua calda che quando c'è si sfrutta per una doccia rilassante. Gabita ha un peso in corpo. Il risultato di un'unione non voluta. L'estratto di una sinergia violenta, di un'alchimia sbagliata. Vorrebbe condividerlo con qualcuno quel peso, magari sbarazzarsene per tornare a sognare una vita decente. Ma non può perché la legge lo vieta. L'aborto è tassativamente vietato dal 1966 per indurre all'adozione. Anche il tiranno ha adottato un figlio, figuriamoci. L'aborto è illegale e se ti beccano gli scagnozzi del Conducator è previsto un futuro funesto.

Otilia parla poco. Preferisce non parlare e con la naturalezza che la contraddistingue, per un amore strano che non riesce a qualificare, sente di dover condividere quel peso che l'amica porta in grembo. Tra una sigaretta di contrabbando fumata più per incentivare la dissoluzione di quel feto e il terrore permanente di essere scoperti, riusciranno a contattare un medico che pratica l'operazione in una quasi totale, squallida anonimità. L'albergo giusto, quella stanza indicata, il telefono che non funziona sempre e i documenti che non si vorrebbero mostrare. Quella sciarpa avvolta al quadrato come un serpente affezionato che nasconde volutamente quel sorriso forzato. Con la speranza che sopprima anche un po' quel freddo orribile che ti frusta il collo. Per strada non c'è nessuno, salvo qualche tram glaciale e la solita fila di disperati davanti l'ingresso morto di un negozio di alimentari. Uno sferragliare di famiglia contrassegna qualche Dacia scolorita.

La totale assenza di musiche, i colori volutamente freddi di una bella fotografia caratterizzano questa pellicola creando un'atmosfera assolutamente pesante, nonostante il vuoto che circonda ogni inquadratura. Lunghi silenzi e sguardi impietriti contribuiscono a rendere più profonda l'aura di timore che avvolge ogni figura costretta a muoversi in quel teatro informe. Schifoso sesso in cambio dell'aborto. E mica una? Entrambe. Anche quella che porta l'agnello sull'altare del sacrificio, attraverso un tubicino di gomma che espellerà il fiore del male.

Sofferenza. Con la paura di essere scoperti e morire di stenti in prigione. Una tromba delle scale di un'altra caserma ghiacciata. Quel peso sbarazzato dall'una che verrà raccolto moralmente dall'altra. Un fardello pesante, eterno, che non si dissolve neanche mentre giace tra il pattume anonimo di chissà quale famiglia. Sarà una lite durante un matrimonio a riservare un po' di carne masticabile. Almeno per stemperare la tensione.

Bellissima opera del regista rumeno Cristian Mungiu, meritatamente premiata con la Palma d'Oro a Cannes. Qualcuno in Italia lo ricorda? Questo popolo di cineasti chiamati italiani lo rammenta? Non scherziamo. Opere del genere passano in sordina. Troppo impegnati ad andare in vacanza. A Natale.

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