"All the Pretty Little Horses (TheInmostLight)" è il secondo capitolo di una trilogia iniziata con "Where the Long Shadows Fall (BeforeTheInmostLight)" e che proseguirà con "The Starres Are Marching Sadly Home (TheInmostLightThirdAndFinal)".

Si tratta di "The Inmost Light", monumentale testimonianza di una nuova (l'ennesima!) tappa del travagliato viaggio spirituale di David Tibet.

E proprio ad una morte (Dolly Collins, sorella dell'amica Shirley) e ad una nascita (la neonata Seth, figlia dell'amico Geoff Cox-Dorée) è dedicata simbolicamente questa opera, sospesa fra Vita e Morte, pervasa da umori fanciulleschi ed atmosfere da trapasso. Una dimensione onirica che sembra proprio voler richiamare le sensazioni contraddittorie di un bambino in procinto di addormentarsi nella penombra della sua cameretta, sospeso fra il calore di una ninna-nanna e le insidie che si celano al di là del manto nero della notte. Un parallelo probabilmente fra l'ingenuità, il candore, le paure e le speranze di un infante e la condizione dell'uomo innanzi agli enigmi della Vita, della Morte, dell'Aldilà.

Laddove gli altri due tomi (considerabili alla stregua di EP, data la durata esigua) costituiscono due oscuri monoliti di tetro ambient catacombale, "All the Pretty Little Horses", del 1996, è indubbialmente il capitolo più vario e coinvolgente della trilogia, un'opera che farà certamente la gioia di chi ha apprezzato lavori come "Thunder Perfect Mind" ed "Of Ruine or Some Blazing Starre". Un'opera in cui convivono pacificamente folk-song ed episodi sperimentali evocanti gli umori dei primi lavori della band. La formazione vede la gran famiglia al completo e in più una graditissima sorpresa che però non voglio subito svelare. Oltre agli onnipresenti Michael Cashmore (chitarra acustica, basso e piano) e Steven Stapleton (manipolazioni elettroniche), troviamo il violino di Joolie Woods e la voce di John Balance (Coil). A far da corollario: una schiera di bambine e bambini chiamati a prestare i loro schiamazzi, le loro risa, i loro pianti.

L'album si apre come s'era chiuso il predecedente: droni nebbiosi, fotogrammi sfocati di una dimensione pregna di paura e di tormento. E il funereo "Why can't we all just walk away?" di Balance. Le ombre sono però subito dissolte da un candido arpeggio di chitarra: è la bellissima title-track, una dolce ninna-nanna appena appena sfiorata dal sussurro di Tibet. Negli umori del brano: tutte le speranze, le aspettative, i fremiti di di un bambino che stenta a sopirsi nell'attesa spasmodica ed insostenibile del mattino del giorno dopo. E' il richiamo lontano di balocchi promessi, il tintinnare amico di piccoli graziosi cavallini con cui gioire intimamente, il risveglio nella luce di una Nuova Alba. Ma prima: la Notte.

Si avvicendano così tepore e gelo, luce ed ombre, sogni d'oro ed incubi terribili, fra malinconiche ballate (le due parti di "Calling for Vanished Faces"), irruenti cavalcate folk ("The Carnival is Dead and Gone") e squarci di allucinata mestizia (il pianoforte scordato e la voce spiritatata di Tibet in "The Inmost Night"). Da segnalare la toccante "The Bloodbells Chime", uno dei brani più struggenti mai scritti da Tibet: la dolcezza e la fragilità tornano a regnare in casa Current, attraverso la voce vellutata della chitarra e del piano di Cashmore, il violino autunnale della Woods, il canto incrinato di Tibet, che, come un animaletto di cristallo, pare doversi infrangere per un nonnulla.

Dopo una prima parte di grandi emozioni, l'album prende una piega diversa, andandosi ad impelagare in una serie di episodi decisamente più ostici, ma non di certo meno affascinanti. Del resto ascoltare i Current 93 non è mai stato facile, e forse non lo sarà mai: l'aspetto concettuale da sempre si intreccia profondamente con quello formale, spesso prevaricando la musica stessa. E se è vero che non esiste album dei Current che non presenti ad un certo punto un Calvario da scalare, ancor più vero è che non esiste un loro album senza una lauta ricompensa a livello emozionale.

Lunghe ed estenuanti ballate folk, fra schiamazzi di bambini, filastrocche e latrati metafisici ("What shadows we are, and what shadows we pursue", è la frase di Edmund Burke che tornerà spesso a gelare ogni impeto di entusiasmo) si alternano a terribili incubi dronici. Come non citare, a tal riguardo, gli otto minuti di "Twilight Twilight Nihil Nihil": un oscuro rituale in cui il desolante recitato di Balance ("Who will deliver me from this body of death?") torna a sovrapporsi alle allucinazioni di Tibet.

Ma come era successo all'inizio dell'album, a dissolvere le ombre è nuovamente l'arpeggio della title-track, che chiude la struttura circolare dell'album servendoci su un piatto d'argento il cameo di uno special guest veramente di lusso: niente meno che sua maestà Nick Cave, chiamato con il suo timbro caldo e crepuscolare a duettare con il sussurro lontano di Tibet. Che altro dire se non che ci troviamo innanzi ad una delle collaborazioni più felici mai partorite dal genere umano? La voce di Cave torna a sperdersi nei fumi sacri di cori da chiesa nella conclusiva "Patripassian", lettura evocativa di un passo di Blaise Pascal, degno epilogo di un lavoro che ci conferma ancora una volta quanto sia riduttiva l'etichetta di folk apocalittico se apposta su una musica spirituale, poetica, ricca di sfumature, significati e stratificazioni concettuali quale è quella dei Current 93.

Buona notte e sogni d'oro.

"Hush-a-bye, don't you cry, go to sleepy little baby, go to sleepy little baby,

When you wake, you shall have, all the pretty little horsies, all the pretty little horsies."

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