Puntuale come la bolletta del gas, ecco che torna David Tibet con un nuovo album, dopo nemmeno un anno di distanza da quel “Baalstorm, Sing Omega” che ahimè ebbe già modo di evidenziare i primi segni di stanchezza compositiva di un percorso costellato da fin troppe uscite discografiche. Senza contare che risale a pochi mesi or sono l'uscita di un'opera interlocutoria come “Haunted Waves, Moving Graves”, non altro che un'appendice concettuale della fantasmagorica trilogia che aveva segnato un ritorno in pompa magna per la Corrente ed una vera rinascita artistica e spirituale del suo deus ex machina.

Archiviata la trilogia, il prolifico David Tibet si riaffaccia sul mondo discografico con una opera che non sembra avere particolari significanze concettuali, se non, da un lato, la sofferta dedica ai due amici di recente scomparsi Peter Christopherson e Sebastian Horsley, e, dall'altro, la prosecuzione dell'affannato cammino spirituale dell'irrequieto istrione.

Un percorso che prosegue sulla scia delle ultime uscite discografiche: un folk apocalittico, quindi, sempre meno canonicamente apocalittico, e sempre più collocabile in una mitica area compresa fra il Mediterraneo e il Medio Oriente.

La continuità con il recente passato è quindi evidente (inevitabile), anche se per la strada vengono persi personaggi di indubbio peso nell'economia del suono degli ultimi Current (James Blackshaw e John Contreras, che sembravano esser divenuti elementi irrinunciabili nella famiglia allargata di David Tibet); ed invece Tibet, artista fecondo ma dall'orgasmo precoce, prosegue imperterrito il suo allucinato viaggio: un cammino compiuto senz'altro con convinzione ma che con il tempo rischia di divenire un discorso paurosamente autoreferenziale, inconsistente se non ispirato da una vocazione più strettamente “artistica”, votata alla comunicazione, che sappia incanalare le energie in una forma che possa risultare convincente.

Questa volta l'eiaculazione artistica avviene quindi troppo presto, e l'ascoltatore non può non rimanere perplesso innanzi alla performance di un Tibet instancabile amante che parte già sfiancato per il troppo recente sesso, che salta di brutto ogni forma di preliminare e che di certo non è in grado di offrire una prestazione in sé memorabile. E se la metafora sessuale suona un'eresia innanzi all'arte pura e sincera di Tibet, allora limitiamoci a sostenere che “Honeysuckle Aeons” semplicemente non centra il bersaglio, risultando l'album più insignificante della Corrente degli ultimi dieci anni. Ovviamente non si tratta di una totale delusione, e chi segue con devozione l'accidentata parabola artistica dell'amico David Tibet avrà modo di trarre piacere dall'ascolto di questo dischetto, che già dalla sua esigua durata (appena trentotto minuti) non si pone certamente fra le tappe più significative della vasta produzione discografica della “band”.

Si parte da una copertina non certo entusiasmante (si tratta di “Dreams of the Crucifixion with Christ and Two Thieves. Ascending”, illustrazione dello stesso Tibet che da un po' di tempo a questa parte ama offrire la sua mediocre arte pittorica quale complemento iconografico alle sue opere): una copertina non certo entusiasmante, si diceva, ma che ben esplicita l'attitudine che animerà i contenuti dell'album, il quale si riallaccia a quel filone di album che vede come migliori rappresentanti lavori intensi quanto minimali come “Soft Black Stars”, “Sleep Has His House” e “Hypnagogue”.

Il sound, in verità, per quanto scarno, presenta una certa policromia data dai contributi degli artisti chiamati questa volta a riempire le file del carrozzone: l'ormai irrinunciabile Baby Dee, che si divide fra piano, organetto ed organo da chiesa, e le new-entry Armen Ra (theremin), Lisa Pizzighella (karimba) e Eliot Bates (oud, bendir ed erbane). Se quindi la Corrente del 2011 parla il linguaggio della tipica ballata pianistica calibrata fin dai tempi di “Soft Black Stars”, si apprezza la novità dell'utilizzo di tutta una serie di strumenti tradizionali che conferiscono al viaggio di Tibet tutta una serie di sapori “inediti”, atmosfere arcaiche ed influssi orientali che vanno ad esplicitare quello che era intuibile a livello concettuale dagli album precedenti: un interesse sempre più marcato di Tibet verso sonorità che richiamino il calore del mediterraneo e le civiltà che su esso, millenni fa, si sono affacciate. Una ricerca spirituale che accantona per un attimo il folk bucolico che aveva caratterizzato le ultime uscite discografiche (farina soprattutto del sacco del talentuoso Blackshaw) e sceglie di imboccare la via dell'introspezione, dello “scavo archeologico” negli abissi dell'individuo (Tibet) e dell'Uomo attraverso la riscoperta del passato più remoto dell'umanità: una via che ripercorre le orme del Cristo, della tradizione biblica più in generale, e che punta diretta al nucleo vero della culla della nostra civiltà. Un viaggio in cui Tibet assume più che mai l'immagine di un saltimbanco girovago alla guida della sua compagnia di artisti “di strada”, dove l'anima da irriducibile clochard di Baby Dee ha assunto oramai un ruolo fondamentale.

Le irrequiete declamazioni di Tibet costituiscono ovviamente il fulcro intorno a cui ruota l'intera girandola musicale, anche se non sempre i suoi imperscrutabili monologhi interiori sapranno raggiungere il cuore dell'ascoltatore (l'opener “Moon”, prevedibile e prolissa, stanca già dai primi vocalizzi e fraseggi di pianoforte; un po' meglio la successiva “Persimmon”, che richiama vividamente le sublimi atmosfere del già citato – immancabile pietra di paragone - “Soft Black Stars”). Senza raggiungere un vero climax emotivo (“Honeysuckle Aeons”, ripeto, è un orgasmo mancato), l'opera migliora di brano in brano, mano a mano che gli strumenti si vanno ad aggiungere al cammino solitario di Tibet (e ne è la prova il materializzarsi inaspettato di percussioni e pseudo-sitar nell'atmosferica “Coocko”), un cammino in cui Tibet, zoppicante a tratti, perso nel deserto dei pensieri suoi, alla stregua di quei monaci che cercano la catarsi nella fuga dal mondo e nell'eremitaggio, viene sorretto e portato a braccetto da un lato dal piano ispirato di Baby Dee e dall'altro dal sibilare del theremin di Armen Ra, che infonde all'opera un'aura di arcana magia.

Non mancheranno pertanto momenti di grande intensità. Un esempio: “Pomegranate” finisce per estraniare l'ascoltatore, il canto di Tibet è farneticante e crea il vuoto intorno a sé, e certo il suo dimenarsi esistenziale, a tratti sopra le righe rispetto allo scarno poetare del contorno pianistico, è qualcosa che solo i Current, seppur al minimo delle loro facoltà, possono dare. Un altro esempio: l'organetto strampalato della successiva “Honeysuckle” prosegue il percorso sospeso entro i confini di un corridoio visionario in cui si è portati davvero lontano con il minimo sforzo. Ultimo esempio, l'apocalittica “Sunflower”, in cui Tibet torna sguaiato, supportato dal solenne organo e dai controcanti di Baby Dee: un brano che va a recuperare in parte quella coralità che aveva reso intriganti gli ultimi episodi targati C93.

L'apporto in sede di produzione e mixaggio di Andrew Liles (che sembra aver preso definitivamente il posto dell'amico e collaboratore Steven Stapleton, assente da un po' di album a questa parte) è invisibile, nel senso che la componente elettronica è comprensibilmente azzerata (dati i presupposti che ha assunto la missione artistica di Tibet, votata all'introspezione più autistica ed estrinsecata nella forma più semplice e meno artefatta possibile); Liles si limiterà quindi ad incasellare e confezionare suoni puliti e cristallini, seppur manchevoli di quella profondità che aveva fatto brillare lavori altrettanto minimali.

Visto da questo 2011, un album come “Black Ships Ate the Sky” appare ormai qualcosa di gigantesco; oggi, pure la debordante elettricità vomitata nel sorprendente “Aleph at the Hallucinatory Mountain” è un lontano ricordo. Sulla scia dell'altalenante “Baalstorm, Sing Omega”, il piccolo piccolo “Honeysuckle Aeons” segna l'ulteriore tacca di una fase discendente in cui Tibet ci appare sempre più vittima della sua tracotanza discografica, incapace da solo di dare una direzione artistica convincente alla sua creatura: manca nel complesso la voglia di osare e di stupire, manca secondo me una sana base di gioia compositiva che illumini questi nove episodi (+ brevi intro ed outro, trascurabili entrambi) che certo non rimarranno indelebili nella nostra memoria.

Parlando di un altro artista, sarebbe stato auspicabile consigliare un cambio di passo che permettesse di poter ragionare sulle energie a disposizione e quindi di un loro più efficace impiego. Ma l'eccessiva prolificità di Tibet rimane da sempre croce e delizia di un'avventura che ha saputo regalare grandi gioie proprio per l'indomabile urgenza comunicativa che, a volte, è stata l'unico strumento capace di scoperchiare scrigni inespugnabili colmi di tesori di un'indicibile bellezza.

A questo giro perdoniamo: ce lo possiamo permettere in fin dei conti, dato che non dovremo attendere molto per poter avere qualche cosa di nuovo dei Current che giri nel nostro stereo. Fra qualche mese se ne riparla.......

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