Griots, Bluesman, Jazzman, MC.

Quattro parole, quattro anelli di un'unica catena, che dall'Africa all'America ha trascinato geograficamente lo stesso ruolo sociale: quello di colui che tiene viva la memoria della comunità attraverso il racconto; del cantastorie che veicola il messaggio nel quale la comunità si rispecchia o, in tempi meno remoti, quello di "CNN del ghetto", per dirla alla Chuck D.

Dälek recupera la valenza sociale della vecchia scuola hip-hop, ma in maniera meno esplicita rispetto ai suoi modelli: i suoi versi rimangono più ellittici; carichi di metafore e di interrogativi irrisolti, vitali nel continuare a cercare le risposte, nonostante la fatica della ricerca che si esprime in toni lividi e oscuri. La rabbia dei versi spinge sul diaframma e carica le parole di espressività, scandendone il fluire.

Sul versante musicale, in questa seconda prova discografica del gruppo, Oktopus non si fa scrupolo di cannibalizzare e sfruttare dilatazioni psichedeliche, feedback, distorsioni, rumore bianco in maniera funzionale alla creazione di ambienti sonori costituiti da suoni oscuri, cinematici ed espressionisti, innestati su una percussività ossessiva e tribale, talvolta passata alla moviola.

I dodici minuti di rumore bianco di "Black Smoke Rises" evocano ora una radio in cerca di frequenza, ora un radar a scandagliare la rotta; il sitar ora in primo piano, ora portato sullo sfondo a mo' di carillon in "Trampled Brethren"; il rock memore della lezione psichedelica tedesca degli anni 60-70, sono solo tre esempi estrapolati arbitrariamente dall'ora di musica che costituisce un blocco di undici brani, uniformi solo in termini di livello qualitativo e di originalità delle soluzioni proposte, una musica capace di dilatare il tempo, che s'insinua subliminale nella mente dell'ascoltatore per crescere ad ogni ascolto, anche a sei anni dalla sua pubblicazione.

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