L'ultima volta che sono stato al Museo di Storia Naturale di Londra passeggiando nelle varie sale, circondato da centinaia di specimen (o specimina: decidete voi la forma plurale che più vi aggrada), mi sono imbattuto in un cartello assai curioso che mi ha fatto (e mi fa) riflettere: ricordava come la "politica" dell'istituzione negli ultimi anni fosse stata quella di prediligere le ricostruzioni sintetiche degli animali a scapito degli esemplari imbalsamati e che la scelta di lasciare in esposizione questi ultimi (moltissimi a dire il vero e spesso con molti segni dell'usura degli anni) era dettata dall'intento "documentaristico" di lasciare intravvedere il passato della Biologia, intesa come scienza, confrontandolo con quello che è il presente. Uno scopo pedagogico all'interno di un altro nel tentativo di imparare dai nostri errori (e il "XIXesimo" secolo britannico, in mezzo a moltissime folgoranti idee, mirabili intuizioni e scoperte, ne è stato pieno, anche in altri campi) per migliorare oppure per farne sempre di nuovi ed esibirli, magari, tra un centinaio d'anni come prova sociologica.

Nelle dispute tra Scienza e Arte io mi sono sempre tenuto in disparte perché convinto che le due cose (se vissute con criterio) siano complementari ma il fatto che un'istituzione scientifica così importante si fosse sentita in obbligo di giustificare una propria scelta (anche per renderla accettabile al sempre più vasto pubblico che sente un, giusto, bisogno di equilibrare il rapporto uomo/altre specie viventi) con dei solidi argomenti culturali mi ha fatto pensare a certi artisti contemporanei e di come apparissero vetusti di fronte alla "freschezza" di pensiero di un'istituzione che aveva (e ha) oltre 130 anni di vita.

Ora ci vuole un piccolo inciso: ammetto che io non sono mai tenero con l'Arte Contemporanea e che è ingeneroso paragonare delle scelte artistiche (che per definizione non devono essere spiegate, tanto meno dall'artista) a quelle scientifiche. Ora posso continuare.

"L'impossibilità fisica della morte nella mente di un vivo" è uno squalo-tigre, appositamente catturato e ucciso (anzi uccisi: nel 2006 a seguito del decadimento del primo esemplare si è resa necessaria la sostituzione con un secondo quindi, teoricamente, l'attuale è un'opera diversa rispetto all'originale) e posto in una soluzione, a base formaldeide, dentro a una teca di vetro trasparente e acciaio.

Dimentichiamo per un attimo le questioni etiche (anzi io non voglio parlarne proprio lasciandovi carta bianca, a riguardo, nei commenti) e quelle stucchevoli su "cosa sia degno di essere chiamato Arte". Facciamo pure finta che dietro all'esplosione (come del resto nel 99% di quelle di altri artisti contemporanei) di Hirst non ci sia stata "solo" un'abile campagna di marketing (in questo caso da parte di Charles Saatchi: scusate se è poco) ma per una volta infrangiamo le regole e chiediamo delle spiegazioni.

Se il motivo di tanto disturbo (ditelo ai due squali...) è un avanguardistica voglia di sperimentare "vie per Damasco" nuove e dedicare la propria "filologia" all'idea filosofica di "Morte" la cosa, a me, pare abbastanza banale e "strausata" (vogliamo parlare dell'Arte Sacra e di tutti quei crocifissi?) e quindi non regge. Un concetto deve essere chiaro: anche se di solito chi disprezza la tecnica è solamente perché non ne possiede e chi è disturbato dagli artisti che cercano la perfezione è perché mosso dall'invidia della consapevolezza di non poter, a sua volta, nemmeno avvicinarla, il fatto che, nel caso specifico, manchi l'atto artistico in sé non mi crea problemi. Se Rembrandt fosse vissuto oggi probabilmente i suoi quarti di bue li avrebbe raffigurati in modo diverso.

Lo stesso si può dire di concetti come "Orrore" e "Ribrezzo" che se vogliamo dirla tutta nel pesce morto di Hirst mancano anche di una delle variabili fondamentali di quello che è un pensiero artistico: l'ambiguità. Crudelmente (se non ci fosse il serio rischio che possa essere colto come un complimento) potrei dire che la massima vena concettuale di Hirst sta nel dare i titoli e sarebbe disonesto intellettualmente affermare che, nel topic di riferimento, non sia d'impatto. Ci tengo a dire che io apprezzo personaggi come lui: qualsiasi persona (artista o no) che trova il modo (tutto sommato) onesto di fare soldi senza lavorare ha la mia stima incondizionata quindi se trovate invidia nelle mie parole è solo per il raggiungimento del fine, non per i mezzi usati.

Tornando all'inizio, stabilito che non è questione di Etica o Tecnica, non mi è ben chiaro se la contemporaneità in una forma artistica debba essere giudicata nella spregiudicatezza intrinseca (e parlando di Hirst è l'unica cosa che gli concedo) o da quella che è colta da critici, pubblicitari, mecenati (se nel "XXIesimo" secolo si può ancora usare come termine) e frizzi & lazzi vari perché più che il fruitore ultimo dell'opera d'arte mi sembra che, in realtà, l'ansia della spiegazione colga proprio costoro (che tutti sappiamo che quando l'artista si trincera in un "no comment" è solo per un banale non sapere che dire) che tante volte disinteressati (a voler pensare male...) dall'aspetto mondano-economico proprio non sono.

Ammetto che per una volta (la seconda a dire il vero) sto parlando di qualcosa che non ho visto direttamente ma solo tramite fotografie e non so dove si trovi ora (è proprietà di un privato, se non sbaglio, ma è stato pure in visione al pubblico in almeno due periodi) ma se avete voglia di vedere specimen che vi siano da memento su quanto è effimera la vita qualsiasi Museo di Storia Naturale fa al caso vostro. In particolare, non sarà uno squalo in formaldeide, ma "solo" lo scheletro di Balenottera (lo so che non è un pesce...) in quello di Londra, dal mio punto di vista, ne troverete uno più consigliabile in quanto a emozioni primigenie. Poi fate voi.

Mo.
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