"gamelan: complesso strumentale in uso soprattutto a Giava e a Bali, costituito prevalentemente da strumenti a percussione (in particolare metallofoni), cui talora si aggiungono strumenti a corda e alcuni tipi di flauti diritti." (Enciclopedia Treccani)

Daniel Schmidt (n. 1942) non può che aver vissuto la sua vita in funzione del suono prodotto dalla percussione del bronzo e dell'allumino, o meglio: per l'ascesi che per loro tramite pare potersi acquisire. Solo così si può spiegare la simbiosi tra lo strumento e il musicista che, sin da subito, chiunque può riscontrare in queste quattro composizioni che Schmidt ha registrato insieme coi gamelanieri di Berkeley tra il 1978 e il 1982, ma che ha (per qualche motivo che mi è ignoto) dato alla pressa solo tre decenni e mezzo più tardi.

Questo Terry Riley del sound balinese, fondendo in maniera candidamente spontanea musicologia, minimalismo e confidenza alchemica con l’alluminio e con la sua foggiabilità, sembra riuscire nel compito immane di convincere lo strumento a far intonare quello che concorda con la sua natura, che egli (proprio come il cuoco taoista che risparmiava in coltelli) non fa che assecondare. Questo labor limae — non solo compositivo ma anche, immagino, di quel genere che lascia trucioli— o gioco di pazienza, artigianale e straniante insieme, non ha niente, proprio niente a che spartire con la composizione sperimentale a tavolino, né con la curiosità etnologica (o, il che è anche peggio, new-age) di tanta musica-mondo, ma solo e soltanto con il sublime bisogno di far suonare da sé le cose, non pretendendo di domarle, ma assoggettandosi ad esse.

Pertanto, se vi chiedete come comunicano fra loro gli strumenti in quel di Giava, quando non nessun giavanese li sente, ascoltate "In My Arms, Many Flowers".

P.S. Non metto le stelline perché ritengo insensato dare voti alla musica.

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