Ho imparato a mie spese che quando ti trovi davanti al film d'esordio di un giovane regista italiano hai molte probabilità di trovarti di fronte al compitino intimista svolto con diligenza moralistica.

Per questo sono stato sorpreso molto favorevolmente da questa opera prima di Daniele Vicari nel 2002. Finalmente dei personaggi "veri" e non stereotipati dei quali il regista non ha nessuna voglia di dare un giudizio morale e che agiscono secondo delle regole che sono quelle della pura sopravvivenza in una società nella quale sono assenti i voli pindarici e le aspettative del domani, riflettendo invece nella quotidianità le speranze vissute giorno per giorno.

E' la vita di Stefano (Valerio Mastrandrea) che campa alla giornata con la sua officina desolatamente vuota ad Ostia, dove trucca le vecchie auto scassate che si può permettere per vivere il suo momento di gloria di sera nei pressi dell'Obelisco, quando la "tribù" si riunisce per il rito delle corse clandestine sul rettilineo a "velocità massima". Il suo nemico è il figlio di papà Fischio, sempre con una macchina nuova, che proprio per il suo status è anche il "padrone" della ragazza più bella del gruppo. Giovanna ostenta la sua frequenza all'università come una volontà di emanciparsi da quel pattume di cui pur riconosce i limiti ma nel quale in realtà sguazza in maniera indissolubile. La novità è questo ragazzino diciassettenne, Claudio, che arriva con il suo motorino da Stefano per fuggire dai progetti casa&lavoro del padre e viene "assunto" quasi senza paga come suo aiuto. E' un mago della meccanica e da un vecchio rottame di una Ford Sierra Cosworth riesce a tirare su un bolide che può consentire a Stefano di competere con le auto di lusso di Fischio. E Claudio in quel sottobosco è il solo che, una volta innamoratosi di Giovanna, ha voglia di fuggire dalla piatta logica del quotidiano tirare a campare, per costruirsi una vita con la persona che ama in un ambiente che gli dia una prospettiva migliore. Un ambiente in cui non valga solo la logica secondo la quale chi per una sera possiede la macchina più veloce è quello più rispettato e circondato da "amici" e ragazze.

Il sogno dell'ingenuo Claudio si scontrerà con una realtà più complessa e squallida di quello che è in grado di immaginare e il suo gesto finale lascerà sorpreso Stefano: chissà se avrà capito che quella sorta di messaggio che gli ha lasciato sullo spiazzo antistante l'officina è un invito a non lasciarsi impantanare in una vita senza un fremito che valga la pena di essere vissuta al di là dell'ebbrezza della velocità sui vialoni di Ostia.

Detto della bravura di Valerio Mastrandea nel tratteggiare uno Stefano che dal suo abbassare gli occhi fa intendere di non essere il duro che vorrebbe dimostrare e di quella del giovane Cristiano Morroni per un deciso ma sensibile Carlo, bisogna dare merito al regista di aver girato il film con distacco da ogni possibile ridondanza, quasi come se fosse un documentario su quelle vite spese nella perenne passività, senza per forza tirarne fuori la giustificazione o il rimbrotto moralista.

La stessa fotografia sorprende per il dettaglio e la luminosità sia nelle scene attorno al casotto dell'officina persa nel sole del litorale di Ostia sia negli episodi notturni lungo le strade della cittadina. L'atmosfera del film mi ha fatto venire in mente un altro film ambientato in questo tipo di mondo, "Strada a doppia corsia" di Monte Hellman, che però era un road movie. Ma le vite di personaggi cristallizzate in un vuoto esistenziale sulle strade del falso sogno americano post sessantotto non sono poi così lontane da quelle di questi giovani borgatari romani del duemila.

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