Consumata la sbornia del masterpiece Thrash, anno 1986, "Darkness Descends", con annessa hangover, i Dark Angel, in sosta triennale, ingaggiano il vocalist Ron Rinehart in sostituzione dell'uscente Don Doty, ed il bassista Mike Gonzalez che rileva Rob Yanh.
Nel 1989, con questi prodromi, "Leave Scars" riporta la band nel circuito Thrash Metal. L'inossidabile ricetta dei californiani, che serbano intatto il livello di songwriting, viene perfezionata dall'esecuzione di pezzi straight in your face ma dal minutaggio elevato, surriscaldati dal drumming inconfondibile di Gene Hoglan, paroliere compos sui dalle liriche scottanti, co-autore delle musiche con Jim Durkin, rapido e tecnico sulle pelli, con soluzioni ritmiche sovente penalizzate dal missaggio che oscura la variopinta e gradevole doppia cassa.
Ron Rinehart si presenta come singer aggressivo e pieno di impegno, sfoderando una dizione yankee accentuata che si concretizza in una prestazione pregevole prima di sprofondare nel buratto della mediocrità di "Time Does Not Heal". Tutte le track risentono della mano del chitarrista Jim Durkin, in stato di grazia, al contrario del sodale d'ascia Eric Meyer, fantasma nel songwriting ma duttile nei solos al pari del suo compagno. Ma non è solo il solismo di chitarra a rendere attraente la proposta dei Dark Angel, c'è anche l'essenza lirica che si discosta dagli altri gruppi: nelle architetture ferali di questo disco c'è un mondo di violenza, di disperazione e di follia che viene sbattuto in faccia all'ascoltatore, con la musica orrida che funge da catalizzatore per riflessioni sul degrado dell'essere umano, in maniera senz'altro più cruda dei Sacred Reich, un altro combo Thrash con testi critici contro la società, ben esemplificati sul loro debutto "Ignorance" del 1987.
"The Death Of Innocence" è la cartina tornasole di queste angosce, aprendo il disco con furor brevis, sparando gli ingredienti del platter in questione: batteria precisa e veloce, suono zanzaroso delle chitarre, basso ectoplasma, voce concitata di Rinehart narrante le gesta di un serial killer che chiede di essere fermato, un argomento in sintonia con il sound limaccioso e tagliente allo stesso tempo, nel quale c'è lo zampino del produce Michael Monarch, ex chitarrista della band leggenda Steppenwolf interpreti della biker-song "Born To Be Wild" (shakerata sia dai Riot che dagli Slayer). "Never To Rise Again" risulta più distesa ma accattivante, dinamicizzata dalla loquela quasi rap di Rinehart che firma il testo con Durkin, all'opposto di "No One Answers" che è una molotov-song di grande impatto soggiogata dai riff dei due chitarristi, a volte cadenzati, a volte anfetaminici che slittano in cinque solisti-duello al calor bianco, bolliti a velocità mostruosa dal dragster Hoglan, che semplifica ogni tocco sul rullante. Buona la cover di "Immigrant Song" dei Led Zeppelin, un compitino riuscito ma più affine ai cugini Viking, viste le tematiche. Rabbia a iosa nell'esagitata "Older Than Time Itself", una colubrina speed caricata da Hoglan e dalle sue battute-bomba, perfino minacciosa nell'incedere pachidermico e intermittente delle asce prima del solos-tornado di Meyer.
"The Promise You Agony" dopo un inizio sinuoso, risulta un pò claudicante nel settore centrale, nonostante la partecipazione nel chorus del cantante e chitarrista Ron Eriksen, dei Viking, fratellastro di quel Brett che suonerà in "Time does not Heal". Sigilla il disco la title-track dove Rinehart sfoggia la miglior prestazione vocale e tutta la band dimostra grande affiatamento, sia nelle parti veloci, sia nelle decelerazioni che precedono due lunghi e portentosi assoli di chitarra che sembrano uscire da una cesta come un cobra obbediente, per rigenerarsi in uno squalo bianco che arranca sotto l'oceano metallico per poi schizzare verso il cielo come un razzi. Durkin e Meyer al loro apice artistico per quanto concerne i solos.
Un grande album, ideale trait d'union tra la furia di "Darkness Descends" e la complessità di "Time Does Not Heal", per una big band troppo legata al nome del matador Gene Hoglan, senz'altro non a torto, anche se spesso viene dimenticato il rinomato lavoro di Jim Durkin in fase di composizione.
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