"Non credo serva a molto fare arte a meno che non sconvolga" diceva David Bowie nel 1973.
Dopo circa venticinque anni di costante rialzo della posta in gioco Bowie si ritrova a metà anni novanta in un momento in cui il gusto medio occidentale ha già abbondantemente metabolizzato l'atrocità, come testimonia la quotidiana ambivalenza fra simulacro e vero (in tv cadaveri mutilati che sembrano effetti speciali e una guerra del Golfo che sembra un videogioco e viceversa).
L'ottica con cui guardare la realtà non è più quella politically correct della denuncia, nè quella dell'invenzione di un mondo orwelliano; nel 1995 Bowie si rende conto che sconvolgere è sempre più difficile e che l'unico modo per "rappresentare" l'orrore contemporaneo sembra essere quello di un cinico assemblaggio pop dei riflessi che ne compongono l'immagine. Un gigantesco collage costruito spingendo al massimo il meccanismo della citazione che riunisce e smentisce contemporaneamente le più disparate esperienze estetiche degli ultimi decenni.

Arte o no, realtà o invenzione, idee proprie o altrui, non ha più importanza; Bowie è troppo chic per essere interessato alla genuina artisticità della propria espressione e troppo conscio che il proprio lavoro (e il rock in generale) adesso più che mai non può non essere derivativo.
In 1.Outside risulta ancora più esplicita la tendenza nei suoi lavori ad essere sì opere di "genio" musicale ma anche e soprattutto sistemi concettuali. Qui la sua vocazione alla messinscena trova la sua sublimazione definitiva in un teatrino di marionette/personaggi (circa 7) gravitanti negli ambienti più degenerati di una fanta-body art, in qualche modo invischiati nell'omicidio-performance della piccola Baby Grace Blue: gli indizi coprono in un ciclo temporale (ma non lineare...) di vicende che vanno da un non casuale 1977 ad un altrettanto emblematico 31 dicembre1999.

Dal punto di vista musicale l'opera si presenta come una sintesi in chiave assolutamente contemporanea di tutto ciò che nei precedenti vent'anni era entrato in collisione con le ricerche di Bowie: uno scontro allestito in 14 (splendidi) brani e 6 recitati di raccordo, fra resti digeriti di ambient music, contemporaneo rock industriale, funk mutante, frammenti di languori glam e berlinesi, e molto altro, il tutto emulsionato da una scrittura dissociata, che procede per accumuli, ellissi e lacune, e che trova un suo riscontro programmatico nella voluta incompiutezza di un finale ancora aperto.

It's happening now
Not tomorrow

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