Alas, poor Yorick! I knew him, Horatio: a fellow | of infinite jest. Mi ero ripromesso di scriverla, questa recensione, quando su aNobii, dopo essermi iscritto al gruppo di DeBaser, avevo incrociato Blechtrommel, che aveva solleticato il mio interesse nelle scrivere "qualcosina" e, a più di tre (3) mesi di distanza, ecco la risposta, una recensione e, giusto per cristalizzare il locus letterario in cui m'era stata messa la pulce nell'orecchio, una recensione su un libro, ma non un libro qualunque, bensì la magnum opus di uno dei più importanti scrittori contemporanei, David Foster Wallace, postmoderno per eccellenza, discepolo dei Pynchon e DeLillo più in forma, scomparso dopo il suicidio avvenuto nel 2008.
Il problema che mi si era posto era l'incipit, che/ché non volevo fosse una banale citazione dal romanzo shakesperiano da cui era tratto il titolo del romanzo wallaciano; preferivo, anzi, un qualcosa di più personale e, vista la mole del libro che andavo a (de)recensire (milleduecentosettantanove (1279) pagine nell'edizione Einaudi, di cui millecentosettantanove (1179) di romanzo e le rimanenti cento (100) di note ed errata corrige), pensavo di iniziare in modo stucchevole - che so, con una sola parola seguita da un punto fermo, per esempio. Il dilemma che mi si era posto, tautologicamente, era che, pur avendo una mini-lista di potenziali parole ad hoc, non sapevo che scegliere e, anche dopo averne depennate molte, me ne rimanevano tre: Audace, Depressione, Intrattenimento. La logica conseguenza è stato stracciare il foglio del bloc notes e fissare lo schermo, quasi fossi in attesa di un'illuminazione divina. Il fatto è che non si può riassumere questo libro in una parola, perché sembra che niente prenda mai il sopralluogo: l'audacia metanarrativa di Wallace è direttamente proporzionale alla trama (l'intrattenimento) del libro che è direttamente proporzionale al leit motiv che lo vena (la depressione). DFW, in un'intervista, aveva detto che voleva scrivere qualcosa di triste, e il risultato è un romanzo dove in un futuro poco lontano (nel 2009, secondo alcuni saggi critici, anno relativamente lontano dal presente in cui è stato pubblicato il libro e che David era stato immaginato come un tempo in cui l'intrattenimento occupava tutti gli interstizi della vita quotidiana, dalle droghe ai serial televisivi) una cartuccia filmica annichilisce ogni desiderio che non sia guardare in un loop eterno quella fatidica cartuccia, intorno alla quale si avvallano personaggi tipici di quel genere letterario noto come realismo isterico (travestiti, drogati, atleti, cospiratori/terroristi, attaché medici, artisti falliti, servizi segreti...); questa babele di vicende personali e descrizioni priapistiche viene narrata con uno stile unico, fatto di frasi che reggono per più di settanta (70) righe ed esercizi stilistici davvero innovativi (le note a piè di pagina contenenti la filmografia di un regista immaginario, l'uso sconsiderato del cut-up [tecnica che unisce frammenti o testi differenti all'interno del romanzo], etc.).
Già questi due elementi bastano per portare in auge "Infinite Jest", un romanzo che vuole - come il "Moby Dick" di Melville, "L'Arcobaleno delle Gravità" di Pynchon, l'"Underworld" di DeLillo, il "Come un'onda che sale e che scende: pensieri su violenza, libertà e misure di emergenza" di Vollmann e via così - essere inabbordabile, per definizione irrecensibile; tuttavia Wallace è uno di quei cervelli che vorresti poter frequentare e "I.J." riesce a rapirti l'anima, a farsi amare... forse perché, alla fine, l'autore fa sentire il sospiro della vuotezza esistenziale che lo accomuna al lettore, della tristezza e della desolazione dell'incompletezza che rende l'umanità tale.
Carico i commenti... con calma