Alcuni segni potevano essere fraintendibili.
Come incontrare, pochi metri fuori dal teatro, il non proprio aspettato Paolo Liguori, o, appena pochi metri dentro, il più prevedibile ma comunque non entusiasmante dj Linus.
Comunque non è di questo che si deve parlare, né dell’algida bellezza del quartere Bicocca e del Teatro degli Arcimboldi. Si deve parlare di un evento. Un evento non fraintendibile, non valutabile né con compromessi, né con false remore o con timore di retorica. Si deve parlare di quel capolavoro assoluto e indimenticabile che è stato il concerto di David Gilmour, il 24.03.06, a Milano. E si deve parlare, inevitabilmente e sempre, di Pink Floyd.
Ma il concerto inizia in maniera molto più gilmouriana che floydiana. Anzi… : sapendo di rischiare lo svacco letterario, oserei dire che il concerto inizia in chiave deandreiana. Ovvero: David Gilmour da il primo applauditissimo e conosciutissimo attacco della sua Strato nello strumentale “Costellorizon” brano suggestivo che apre anche l’ultimo album. Poi, esattamente come fece il buon Faber nel tour dell’indimenticabile “Anime Salve”, annuncia l’esecuzione dell’intero album nella prima parte del concerto. Così com’è sul disco: stessa scaletta e sostanzialmente identici arrangiamenti.
Noioso ? Tanto come nel caso di Faber, ovviamente no. Le interpretazioni solo, al limite, arricchenti. I brani vivono una vita e un respiro larghi e bellissimi, quasi migliori di quanto siano quelli registrati. Unico piccolo e molto opportuno “allungamento” dei brani è costituito dalla grandevolissima presenza di Dick Perry, uomo che chi non conosce può smetter di leggere e indirizzarsi altrove, con un virtuale e amichevole calcio in culo. Dopo un’ora vengono annunciati dal protagonista venti minuti di pausa (d’altra parte siamo in teatro, no ?), trascorsa a gironzolare con l’ amico e collega fomentando la comune esaltazione e, non nego, cercando in vano di contemplare qualche gnocca da platea.
Ma è quando il concerto ricomincia che succede quello che doveva succedere, e l’esaltazione del primo tempo si trasforma in pura e irrefrenabile estasi. “Shine on you crazy diamond” è assolutamente inedita nella forma proposta: l’introduzione richiama il concerto del 2002, con la Strato al posto dell’acustica. Nel tipico crescendo entra tutta la band, e i cori sono, ovviamente, tutti maschili, data la presenza dei soli sei musicisti sul palco. Poi, nella seconda strofa, torna il leader solitario dell’ introduzione. Chiude Parry con soli di baritono e tenore. Poi è puro delirio floydiano, molto superiore e molto migliore, a mio parere, rispetto ai due tour “watersless”, tanto che l’ultimo brano, prima dei bis, è una giustamente chilometrica “Echoes”, dove tutti, a partire dal leader, sono in una forma paragonabile solo a quella degli anni lontanissimi in cui il brano veniva eseguito ancora “live”. Prevedibile e quasi isterica standing ovation finale.
Due bis, tanto prevedibili anch’essi quanto schiettamente belli: “Wish you wrer here” e “Confortably numb”, col lungo assolo finale a chiudere un concerto a dir poco perfetto. Da segnarsi in partilorar modo il ruolo di Richard Wright, che, munito di ben due tastiere e un piano elettrico, c’ha dato dentro come non si vedeva da millenni, caricandosi sulle spalle quasi tutte le parti di tastiera, molti cori ed un paio di interventi vocali da protagonista (veramente entusiasmante quello di “Wearing the insideout” da “Division Bells”, disco rappresentato da ben tre brani). Da segnarsi la totale assenza di brani da “A momentary lapse of reason” e dai primi due dischi solisti di Gilmour. Dunque tutto perfetto ? Direi, come ho già detto, di sì. Ma, visto che, da buon piemontese, di qualcosa dovrò pure lamentarmi, potrei dire che il giovane batterista era a tratti un po’ piatto e incapace di decollare. Ma solo, penso, per l’ orecchio di un rompicoglioni come me. Il resto è pura divinità, degna conclusione della settimana chitarristica della mia vita (martedì ho fatto una jam con Braido, ma lo dico solo per vantarmi e so che non c’ entra un beneamato…).
Ultimo piccolissimo dato, da tutti percepito: un tour così concepito (così come anche il disco) che poteva ruffianamente essere targato Floyd senza alcun problema, men che meno legale, è semplicemente l’opera di un autore grande, di una voce splendida e di una delle poche chitarre veramente fondamentali della storia della musica insensatamente deifnita leggera. Il tutto con l’assenza dell’ormai rappacificato fantasma di Roger Waters, che vedremo all’arena di Verona, spero con altrettanta libidine, e spero, ma temo sia difficile, privo dell’ormai rappacificato fantasma di Gilmour.
Carico i commenti... con calma