“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”
Potrebbe essere curioso applicare queste celebri parole di Antoine Lavoisier alla musica, per correre così il rischio di scoprire alcune piccole verità, come constatare che è sempre più difficile proporre qualcosa di originale nel contesto musicale odierno. Poi ci si dovrebbe chiedere se sia sempre necessario farlo, ma per ora forse è bene non divagare e limitarsi a prendere atto di questa apparente trasformazione di David Gray. “Life In Slow Motion”, difatti, sembra molto diverso dai suoi lavori precedenti, certamente più semplici, minimali e asciutti. È molto ricco ed elaborato negli arrangiamenti, imperniati principalmente sull’orchestra d'archi, ulteriormente arricchita da fiati, seconde voci e spunti pianistici a supporto del canto di Gray, comunque bello, deciso ed in primo piano anche in questo contesto molto enfatizzato.
Perché questa metamorfosi? Pare che il disco, partendo dal desiderio di Gray di ispirarsi a Phil Spector, abbia preso questa piega grazie al produttore Marius de Vries, che ha una passione per gli arrangiamenti pomposi. Così Gray si è lasciato alle spalle paragoni scomodi, quanto discutibili, come quello con Bob Dylan, ed i vari clichè che la critica gli aveva frettolosamente cucito addosso dopo la pubblicazione di “White Ladder”. Ne è valsa la pena?
Per ora forse non del tutto. Infatti il risultato è un disco onesto, piacevole, ascoltabile, sereno, lineare, con alcune venature intimiste, ma non sempre ispirato e senza elevati picchi di interesse. Nel complesso non è indimenticabile insomma. Inoltre, non tutto l’album appare allo stesso livello.
Se invero la costruzione melodica, lo sviluppo degli archi e la forza interpretativa vocale di “Alibi” in apertura, sono sufficientemente degni di attenzione, lo stesso non può dirsi, ad esempio, di pezzi come “The One I Love”, tutto sommato una canzonetta radiofonica di basso profilo, o “Nos Da Cariad”, che musicalmente evoca un po’ troppo le cose meno riuscite dei Coldplay. Il momento più interessante dell’album potrebbe essere “From Here You Can Almost See The Sea” in cui – finalmente – spunta con chiarezza una chitarra e diminuisce l’enfasi degli archi, oppure “Lately”, una canzone tutto sommato semplice, che mette in luce qualche piccola e palpabile emozione. Ma, oltre questi esempi e la pur bella voce di Gray, c’è ben poco in mezzo a questi eccessi strumentali.
Ora, però, mettendo da parte la trasformazione degli arrangiamenti, ci si potrebbe chiedere se “Life in Slow Motion” sia un vero cambiamento. In fondo David Gray è sempre stato un ottimo musicista pop e questo disco altro non è che pop. Barocco, onesto, sincero, ben fatto, ascoltabile, non eccelso come talvolta in passato, ma pur sempre e solo pop, come prima. Forse con questo disco ora è soltanto più chiaro. Non tutto si trasforma.
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