Un treno che sfreccia a 350 all'ora tra Tokyo e Kyoto, sette killer a bordo, tanti calci e pugni, evoluzioni rocambolesche, colpi di scena, estetica ultra-pop. Il regista di Atomica bionda si merita sicuramente un'occasione e il nuovo lavoro parte con grandi premesse. Un action comedy coi fiocchi, ritmo forsennato e uso sapiente delle immagini. Ogni tanto scappa anche una risata generale in sala.

Nei primi minuti ci vengono riversate addosso tonnellate di sequenze ipercinetiche, velocissime, digressioni più o meno serie, storie di mafia giapponese, di gangster che si sono fatti strada da soli per poi soccombere di fronte alla perfidia di un traditore. Storie di padri feriti che cercano riscatto, mariti rimasti soli che non si danno pace, storie di killer che sembrano aver scoperto la saggezza, fratelli sicari, o presunti tali (la coppia comica), che si trovano tra incudine e martello. I motori diegetici che danno spinta all'agire dei personaggi riguardano due temi: la vendetta (di padri, figlie, sposi) e la necessità di portare a termine un lavoro, per salvarsi la pelle.

Leitch fa suo un soggetto sicuramente succoso e si dimostra abile maestro burattinaio. Nel senso che i protagonisti sono maschere da commedia ben cesellate (sceneggiatura di Zak Olkewicz, a me ignoto) che interagiscono in modo più o meno meccanico. Ognuno ha un obiettivo, e scontrandosi con gli altri sul treno deve fare in modo di portarlo comunque a termine, nonostante le resistenze dei rivali. È un gioco che può sembrare stucchevole, ma qui la ricchezza di peripezie, i fraintendimenti, gli interventi sempre maliziosi del destino, gli svolazzi d'azione con botte da orbi e le alchimie tra persone che non si conoscono sono così vasti e ben strutturati che non si può non fare un plauso per la costruzione scenica. È un continuo gioco di incastri narrativi e virtuosismi action. Tanta roba.

Ma, c'è un momento di svolta, e non in positivo. Dopo un'ora e passa di legnate sui denti, fughe e rincorse, ricatti e mascheramenti, digressioni storiche o comiche, si inizia a perdere il filo. All'ennesimo incontro tra killer (che in questo caso non si conoscono), all'ennesimo dialogo pieno di menzogne e ricostruzioni fantasiose, mi sono accorto di non ricordare perfettamente che fine avesse fatto quel tale di cui stavano parlando sullo schermo. È un segnale.

Troppa materia narrativa, che per quanto ben lavorata a un certo punto arriva a saturazione. E per di più, si tratta tutto sommato di intrecci senza grande spessore, non c'è un connotato drammatico o tragico forte che le renda memorabili (a parte un paio di casi). Quindi dopo un po' si inizia a dimenticare, diventa una centrifuga sempre più indigesta e quasi indistinta. Potrebbe succedere qualsiasi cosa e non saremmo comunque stupiti.

Forse Leitch lo sa, e verso la fine inserisce alcuni stacchi più lenti e drammatici. I sentimenti veri fanno capolino nella storia, ma siamo troppo anestetizzati dalla vagonata di botte e ammazzamenti precedente. Inoltre, la bravura nel costruire macchiette comiche non viene pareggiata nel lavoro sulle vicende più tragiche, quelle che rappresentano la vera spinta propulsiva verso la vendetta. In fondo, il regista non riesce a prendersi troppo sul serio e anche il cattivo più temibile alla fine non ci scuote più di tanto.

La costruzione è comunque accurata, non c'è un vero crollo. È lo spettatore (o forse io) che dopo tante coreografie di morte (perfette, divertenti) chiede qualcosa di diverso. Forse il regista, che ha talento, deve ancora imparare un poco la lezione: se ti si chiede azione a più non posso, forse l'unico modo per soddisfare il pubblico è in sottrazione, togliendo qualcosa e puntando sul valorizzare al massimo i momenti topici. Mi viene in mente Tarantino, da cui pur qualcosa viene preso qui. Ma Leitch forse non ricorda che la parte migliore di Kill Bill non è la prima (che comunque non è tutta combattimenti), ma la seconda, quando i sentimenti feriscono più di qualsiasi katana.

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