Non è facile fare critica quando si ha a che fare con un film accolto in modo particolarmente altisonante, per non dire strombazzante. Per questo It Follows basta la locandina, tutta tempestata di stellette da recensioni a pieni voti. Ma voglio comunque dire la mia, discostandomi in parte dal coro di elogi.

Il film mi è piaciuto abbastanza. L'ho trovato stilisticamente delizioso e maturo, portatore di una carica orrorosa diversa da quella ormai cristallizzata in migliaia di film fatti con lo stampino. Il regista qui invece pensa bene di opporre al dinamismo estremo del cliché la lentezza massima. La minaccia, il nemico misterioso da cui fuggire, compare solo poche volte di sorpresa in spazi ristretti; nella maggior parte dei casi lo vediamo avvicinarsi lentamente da molto lontano, inesorabile e silenzioso. Questo comporta un'angoscia diversa dal solito, priva di grandi strappi adrenalinici; si preferisce invece macerare lo spettatore in un soffocante senso di impotenza. La "cosa" arriva prima o poi; nonostante i continui spostamenti della protagonista, la minaccia incombe su di lei come una spada di Damocle. Punta a prenderla per sfinimento. Anche lo spettatore subisce la medesima torchiatura psicologica estenuante.

La lentezza logorante della vicenda ha un valido alleato nelle musiche di Disasterpeace, che riempiono in modo magistrale i tempi del film, altrimenti eccessivamente dilatati. Il lavoro del compositore è eccellente, ricco di temi memorabili, accattivanti e ben ritmati, caratterizzati da una certa urgenza emotiva, una carica emozionale immediata ed efficacissima. E la presenza così pervasiva della musica dice molto sul taglio stilistico che il regista Mitchell vuole dare a questo film: la paura è massimamente estetizzata, messa a fuoco con grandi sottolineature estetiche, forse anche per sopperire a una narrazione di livello medio-basso.

Dello stile e delle dinamiche di base del film non ci si può di certo lamentare quindi. È la narrazione a non convincere sempre appieno: dopo aver posto delle premesse solidissime, si preferisce seguire una linea evolutiva quasi puramente action, piuttosto che sviluppare in modo sistematico le conseguenze morali e psicologiche di una simile situazione.

Questa maledizione si trasmette per via sessuale; si poteva sfruttare meglio la cosa e abbozzare una questione morale in proposito. Invece la protagonista Jay non sembra molto preoccupata da questo punto di vista, non si pone più di tanto il problema se sia giusto o meno contagiare altre persone. Mancando (incredibilmente) qualsiasi figura genitoriale, questi ragazzi risultano lasciati a loro stessi e totalmente privi di guide: quella che si ricava è una visione della società troppo semplificata e utile soltanto a far funzionare il meccanismo diegetico.

Anche l'angoscia creata dalla persecuzione non viene sempre sfruttata nel modo più proficuo; quando Jay si trova all'apice del pericolo (in ospedale), vengono introdotte delle variazioni che allentano la pressione su di lei. Ma in generale la parte finale sembra proprio dimostrare che il regista e sceneggiatore Mitchell ha avuto alcune buone intuizioni ma poi non ha saputo portarle a pieno compimento. Anche le regole della maledizione sono poco chiare o comunque non troppo sensate (non anticipo nulla sulla fisicità e sulla mortalità dell'essere, ma non mi hanno convinto).

Buona invece l'ultimissima inquadratura, che gioca nel modo migliore con l'incertezza della situazione. È tutta lì l’efficacia dell’invenzione: come la giovane protagonista, non sappiamo più nemmeno noi se i passanti siano persone comuni oppure una delle tante incarnazioni della cosa malefica. Peccato che questa ambiguità sia ben poco sfruttata nel resto del film, dato che le varie incarnazioni della cosa sono (quasi) sempre riconoscibili. E infatti una delle migliori sequenze vede la cosa incarnata in una persona normale, a stento distinguibile dalle amiche di Jay.

6.5/10

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