“Peaceful Snow” era stato un album modesto, eppure in qualche modo ero riuscito a farmelo piacere: nell’inverno del 2010 uscivo da una storia sentimentale assai tormentata, mi trasferii in un’altra città e in tutto questo il gelido e desolante “Peaceful Snow” fu l’impeccabile colonna sonora. Nemmeno a farlo a posta, in quel periodo capitò persino la neve (cosa rara dalle mie parti), cosicché gli umori di quell’album avevano modo di rispecchiarsi sul manto bianco che ricopriva le strade, le case, le cose, l’ambiente che mi stava intorno e dentro. Il pianoforte elegante di Miro Snejdr ne era il contrappunto ideale.

Nella primavera del 2013 esce “The Snow Bunker Tapes”, non altro che l'insieme dei nastri che Douglas P. fece avere a Snejdr affinché potesse scrivere le parti di piano e curarne gli arrangiamenti: quelle tracce, di chitarra e voce e poco altro, furono l’embrione da cui scaturì “Peaceful Snow”, l’ossatura invisibile di quell’album, l’abbozzo buttato giù ad uso e consumo esclusivo di Pearce e del suo collaboratore, un'opera incompiuta che oggi vede la luce.

Lo dico subito: vi sono validi motivi per trascurare con serenità questo ultimo capitolo della saga infinita della Morte in Giugno, e questi motivi sono più numerosi e maggiormente consistenti rispetto a quelli che invece potrebbero portare ad avvicinarsi ad esso, che rimane sostanzialmente appannaggio esclusivo dei fan più completisti della band.

E' inevitabile che di fronte ad una operazione di questo tipo, compiuta da un artista che da circa quindici anni vive un blocco creativo oramai irrisolvibile, si materializzi, anche nella mente dell'ascoltatore meno malizioso, il sospetto che Pearce stia disperatamente raschiando il fondo del barile, nella speranza di tenere in vita la sua zoppicante creatura, sfruttando un marchio che nonostante la parabola discendente mantiene un forte appeal nel settore.

Secondariamente, la riproposizione di brani presentati nemmeno tre anni fa non costituisce certo una mossa di grande attrattiva, nemmeno per gli stessi fan, considerato anche che “Peaceful Snow” era stato accolto assai tiepidamente.

Terzo aspetto, infine, ponendoci su un piano strettamente personale, vale il discorso che facevo all’inizio: mi ero in qualche modo affezionato alle composizioni di “Peaceful Snow”, nella forma in cui erano state allestite, con il bel piano di Snejdr che conferiva all’album un fascino particolare e sicuramente un sapore inedito per un lavoro dei Death in June. Innanzi ad un’operazione come “The Snow Bunker Tapes” si affaccia quindi il timore di una nefasta ritorsione emotiva che finisca per contaminare l’album originale.

Che dire, amici miei, infine ha prevalso la curiosità: ho così fatto mio anche questo “The Snow Bunker Tapes”. Delusione? Non delusione? Ovviamente le aspettative erano bassissime, praticamente nulle, ma quello che rincuora è che almeno i due album suonano paradossalmente molto diversi, suscitando sensazioni diverse e non entrando quasi mai in collisione. Non c’è confusione né compenetrazione fra le due dimensioni: “Peaceful Snow” era un album elegante, raffinato, oggi ci pare un monumento in confronto a questo “The Snow Bunker Tapes”, un album spoglio, diretto, privo di fronzoli, ma che ha comunque il pregio di saper descrivere con maggior vigore l’epica della solitudine di Douglas P., elemento cardine della sua crociata artistica ed esistenziale.

A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, potremmo intuire un’urgenza da parte di Douglas P. nel volersi riappropriare di un album molto intimo e personale, “diviso a metà” con Snejdr: se “The Rule of Thirds” era stato il ritorno di Pearce ad una dimensione più strettamente cantautoriale dopo la stagione delle collaborazioni, e “The Peaceful Snow” una parziale “sbandata” verso quello stesso terreno di condivisione artistica che era divenuta la formula standard della Morte in Giugno nell’ultimo quindicennio (una finta collaborazione, in verità, visto che l'intervento di Snejdr fu posteriore al processo di scrittura dei brani, e che i due non si sono mai incontrati durante la fase di produzione dell’album), “The Snow Bunker Tapes” riprende bruscamente il percorso intrapreso con “The Rule of Thirds”, consegnandoci l'autore in veste di deus ex machina della sua creatura. A chi è piaciuto (non dispiaciuto) quell’album, probabilmente piacerà (non dispiacerà) anche questo, sebbene qui il minimalismo/ermetismo di Pearce si spinga ulteriormente oltre.

Difficile quindi sostenere con sicurezza se “The Snow Bunker Tapes” sia un album bello, brutto, interessante, dignitoso, degno di essere ascoltato almeno una volta, o una semplice perdita di tempo: il giudizio si fa mobile ed altalenante, a tratti questo lavoro suona francamente imbarazzante, altre volte “carino” (ben conscio che il termine “carino” non sia certamente il più adatto a descrivere un album dei Death in June). Imbarazzante perché è una reale tristezza rinvenire una tale trascuratezza nell’operato di un artista che, con la sua esperienza e la storia che si porta dietro, potrebbe disporre di tutti i mezzi e le arguzie per confezionare un album che almeno non leda la dignità di chi lo ascolta (anche se Pearce un perfezionista non lo è stato mai: probabilmente nell’animo rimane un punk, basti rammentare che il passaggio dal punk alla dimensione acustica del folk – e quindi alla coniazione di un nuovo genere, il folk apocalittico – fu decretato da un fatto fortuito, ossia il banale furto della chitarra elettrica di Pearce stesso, che in seguito dovette, in mancanza di altro, ripiegare sull'economica chitarrina acustica a sua disposizione). Ma tornando a noi: possibile che non si potesse fare di meglio? Che so, accordare la chitarra, almeno? Del resto si parla di demo che Pearce ha sottoposto alla sola masterizzazione, senza ritocchi né additivi. Lasciare però il ticchettio del metronomo all’inizio di alcuni brani è una scelta pericolosamente sospesa fra l’intransigenza assoluta (sempre apprezzabile) e la sempre deprecabile presa in giro.

D’altro canto, è anche vero che le sgangherate ballate di Pearce continuano a rilucere di un magnetismo intrinseco che difficilmente possiamo spiegarci. Se la musica dei Death in June è oggi più che mai musica della solitudine, allora questa strampalata forma di cantautorato ne è l’estrinsecazione più coerente: tredici ballate di sole voce e chitarra, con qualche orpello gettato lì che infine fa più danni che bene (orripilanti i suoni di tastiera, inutili le ritmiche). La voce fantasmatica di Pearce è riverberata e spesso doppiata da egli stesso, tanto da far risultare ancora più distante e lontano l’artista, la cui voce oscura e robotica cozza con gli accordi di una chitarra spesso improntata su arie allegre e solari. Se in “Peaceful Snow” il gelo era tangibile, in “The Snow Bunker Tapes” (fra l’altro penalizzato dal periodo in cui esce: oggi per esempio sarebbe da andare al mare piuttosto che sciare) questo gelo non si percepisce affatto, lasciando solo la sensazione straniante che quello che si sta ascoltando non è né cantautorato né dark o folk apocalittico, sebbene la veste acustica e l’altisonante marchio possano ingannare.

Come già detto in altre circostanze, si tratta non altro che di musica pearciana, tanto il suo autore punta all’autoreferenzialità: un bunker emotivo ed artistico che tuttavia rischia di imprigionare il Pearce artista, impantanato nella secca ostile di un solipsismo che non sembra essere cosa più gradita nemmeno ai fan più irriducibili. E così “The Snow Bunker Tapes”, che risente della medesima fiacchezza compositiva dei suoi predecessori, non può risollevare le sorti di una parabola artistica discendente, ed anzi finisce per esserne ad oggi il punto più basso. “Murder Made Hystory” era prolissa e prolissa rimane, un po' come tutte le altre dodici tracce, salvo qualche episodio: come la title-track, che in “Peaceful Snow” era stata un’intensa ballata dai contorni caveani, ed oggi diviene una sorniona cavalcata in tipico stile ultimi Death in June. Se il “lalalala” nel refrain di “Red Odin Day” è addirittura divertente, mostrandoci un Pearce veramente molto lontano dagli oscuri stilemi del folk apocalittico da lui stesso coniati, “Our Ghosts Garther” guadagna punti rispetto all’originale, mostrandosi uno spietato saggio di determinazione/auto-affermazione pearciana. L’incipit della conclusiva “The Maverick Chamber”, infine, quasi resuscita il fantasma del classico “But, What Ends When the Symbols Shatter?”, peccato che poi si ricada nel solito giro di chitarra che da “Alarm Agents” in poi sembra essere riproposto con criminale incuranza dal Nostro: l'album termina quindi lasciando all'ascoltatore una pesante, inevitabile sensazione di deja-vu. Meno male, vien da pensare, che si era ricorsi al talento di Snejdr (un bel "toppino"), perché francamente un album acustico di Pearce, a queste condizioni, sarebbe stato un passo ulteriore nel baratro senza fine in cui sta cadendo impietosamente il glorioso padre del folk apocalittico.

Per molti quest’album suonerà quindi come l’ennesima scialba operazione commerciale di un artista da tempo finito che cerca di sfruttare fuori tempo massimo il buon nome della sua band. Per i pochi altri può essere una interessante parentesi da concedersi in attesa del prossimo album dei Death in June. Nonché un sottofondo “carino” da mettere in macchina mentre si va al mare.

Altro che neve....

Carico i commenti... con calma