Introduzione:

Il pop metal è esploso a metà degli anni ottanta ed ha tirato alla grande in tutto il mondo per sette od otto anni… Italia sostanzialmente esclusa, per qualche ragione abbastanza idiosincratica a questo genere. Forse da noi le contaminazioni non pagano, ovvero o si è metallari chiodati e borchiati e allora qui si ritiene che si stia parlando di mammolette, o si considera il metal un frastuono ottuso e bambinesco a prescindere, pure nelle sue forme più smussate e rotonde e adulte.

Per chi non è quindi prevenuto sull’argomento, anzi volendo anche interessato c’è da dire che, come più o meno per ogni altro genere di musica, nel pop metal ci sono stati (dall’alto in basso) i pionieri e precursori, poi i bravi ed ispirati, quindi i dignitosi e simpatici, e ancora i somari ed inadeguati, fino agli insopportabili e tamarri.

Naturalmente ognuno è libero, secondo gusto e competenza, di guarnire queste cinque classi di merito con serie più o meno folte di artisti di riferimento… Per alcuni tutti i nomi venuti a mente saranno quantomeno dignitosi… per molti invece la scelta oscillerà semplicemente fra inadeguati e insopportabili.

Io che sono stato a quel tempo parecchio in contatto con questo genere, avendolo innanzitutto suonato (insieme al suo cugino A.O.R.) per buona parte degli anni ottanta e novanta con diversi miei gruppi, mentre contemporaneamente accumulavo in ciditeca un numero notevole (col senno di poi, eccessivo) di precursori, di bravi, di simpatici, di somari e persino qualche tamarro, ritengo al presente di essere ben lontano dalla sbornia di quei tempi ma nemmeno tanto revisionista; pertanto sento di poter esprimere un giudizio, se non spassionati, quantomeno equilibrato su questi miei favoriti di trent’anni fa.

Cosicché questo undicesimo e per ora ultimo lavoro (2015) dei Def Leppard me lo sono accattato volentieri, seppure senza precipitarmi a farlo, attendendo piuttosto la prima occasione di saldo.

Contesto:

I cinque ragazzi appartengono al benemerito battaglione dei pionieri e precursori del pop metal, in prima fila alla rifondazione della musica heavy ad inizio anni ottanta. Finita poi negli anni novanta la pacchia e le decine di milioni di dischi a botta, hanno provato a variare la proposta facendosi abbindolare come più o meno tutti dalla faccenda grunge in primis, poi svariando con qualche schizzata di techno e di industrial senza dare alcuna svolta alla carriera, anzi arretrando via via nel favore degli appassionati.

Giunti poi ai cinquanta e ora anche ai sessanta o quasi anni sul groppone, coi figli grandi e il conto in banca congruo e stabile da decenni, è ammirevole infine la loro voglia di rimanere ancora insieme e darci dentro colla musica, accontentandosi non dico delle briciole di quello che una volta era il loro successo, ma quantomeno di una minima frazione.

Il maggiore artefice di questa longevità credo che sia il frontman Joe Elliott. Lui ragiona così: “Si, adoro i Mott the Hoople, David Bowie, Marc Bolan e il glam tutto. Compongo ispirandomi essenzialmente a questi qui… che male c’è? Tanto ci pensano poi i miei compagni a inserire altre cose nella nostra musica e quel che ne viene fuori è lo stile Def Leppard, colle stratificazioni dei cori e quel mio modo di comporre i cantati…” Niente da obiettare. Nulla di geniale, molto di professionale e appassionato e onesto.

Punti di forza e lacune:

La forza più evidente, anche se “astratta”, del Leopardo Sordo è l’amicizia e la coesione di gruppo. Non sono venuti su come fighetti londinesi (come gli Stones, ad esempio…) ma come figli della numerosissima classe operaia della dura Sheffield, acciaieria d’Inghilterra, oppure dell’ancor più dura anche se per altre ragioni Belfast nel nord Irlanda, nel caso del chitarrista Campbell. Perciò sempre giusta umiltà, tanta democrazia interna, molto entusiasmo nei momenti felici, un bel rimboccarsi le maniche in quelli bui (il grave incidente e conseguente menomazione del loro batterista nonché la morte per abuso d’alcool di uno dei chitarristi gli episodi più critici), e sempre lavoro, passione e ancora lavoro.

Vertici dell’album:

Questo disco omonimo dei Def Leppard parte all’insegna della restaurazione con la autocelebrativa ma beneficamente strapotente “Let’s Go”. Un che di già sentito nelle melodie, nei ritmi e negli arrangiamenti (epoca “Hysteria”) ma, se il contenuto è già noto, la forma è qui al meglio: il riff mezzo stoppato di chitarra è semplice ma iper poderoso; la batteria è detonante alla Bonzo (sempre lode a Rick Allen che con due gambe ma un braccio solo riesce a suonare tutto quello che va suonato); i suoni di chitarra sono enormi, pachidermici… tocca scomodare gli (scoppiatissimi, da tempo) colleghi Boston per immaginarne di così sonori e gonfi di armonici.

Stessa cosa per la successiva “Dangerous”, a sua volta molto vicina a “Pyromania” per la tipologia di riff e la semplicità (banalità?) melodica.

Spudorata ma irresistibile poi la sfrontatamente Queeniana “Man Enough”! Un 50% di “Another Bites the Dust“ e un 40% di “Invisible Man” almeno, nella pozione qui servita, con tanto di cassa in quattro, basso pantagruelico e dominante, assolvenze e dissolvenze di voci e chitarre. Un vero tributo, senza vergogna, senza nascondersi.

Alla quarta traccia arriva il meglio della storia, ossia una power ballad intitolata “We Belong” tutta da godere (per chi non è prevenuto a prescindere sulle ballatone heavy e derivati, ovviamente): attacca un delizioso riffetto di pettinatissime e calde Gibson moderatamente e rotondamente distorte, raggiunte subito dall’atmosferico pedalone di basso, dopodiché le strofe vengono cantate un verso per uno da tutti e cinque! Nel merito, la prima strofa dal cantante, poi dal chitarrista Collen, indi dal bassista e infine dal chitarrista Campbell: nella seconda il batterista prende il posto del cantante e gli altri tre a seguire nello stesso ordine di prima. Elliott provvede poi a riprendersi la voce solista nei ritornelli e nel ponte. Cazzo, cantano bene tutti e cinque! Con nota di merito per Collen che è alto un soldo di cacio ma ha un timbro baritonale spesso e leggermente rauco che potrebbe fare tranquillamente il frontman al posto di Elliott.

Dal quinto brano in poi la scaletta si fa più ordinaria e molto meno arrapante. La qualità si innalza nuovamente e decisamente per l’ultima volta colla nona traccia “Battle of My Own” e non è difficile neanche stavolta individuare gli ispiratori: Led Zeppelin. Ci sono infatti le chitarre acustiche pesanti e spesse in quella certa maniera inimitabile, poi raggiunte da quel certo mellotron orientaleggiante, a riconiare ancora una volta quell’heavy folk inventato da Jimmy Page cinquant’anni fa. Siamo decisamente dalle parti di “Friends” in particolare, insomma a Led Zeppelin III, anche se il titolo richiama “Battle of Evermore” mentre il lavoro vagamente mediorientale della tastiera si ispira a “Kashmir”… due pezzi da novanta del Dirigibile.

Il resto:

Come spesso avviene nei cd, la qualità media delle canzoni è distribuita in modo da avere i suoi vertici all’inizio, per poi scemare via via. Giusto così, però quattordici pezzi sono troppi… con un paio in meno scelti fra i più scarsi il disco avrebbe giovato di una maggior compattezza e qualità totale. Arrivati alla traccia quattordici ci si è rotti un po’ le palle dei Leppard e l’avvincente prima parte del disco viene a ridimensionarsi. Vediamo di dire qualcosa su un po’ di brani ancora:

In “Invincible” fa bella mostra la chitarra in staccato bella gonfia alla Mick Ronson… un tizio di cui non sarà mai abbastanza sottolineata l’importanza nell’ambito della musica tosta ma melodica. David Bowie e amici suoi sono nei cuori e nelle teste di tantissimi rocchettari Leppard compresi e in questa canzone si sente, anche se non siamo all’esagerazione.

Cazzo, “Sea of Love” è invece esagerato omaggio! Ma non ai Queen né a Bowie, bensì a quell’arte del ritornello vagamente-beatlesiano-ma-personalizzato dei Tears for Fears. Il titolo, intonato in un tripudio di cori al momento del refrain, richiama anche foneticamente quella “Sowing the Seeds of Love” di venticinque anni prima, uno dei successoni dell’eccelso duo pop di Bath. Questo ritornellone anni ottanta viene abilmente intercalato a schitarrate decise quanto anonime insieme a canto rugoso e hard nelle strofe, in tal modo spiccando per contrasto ancora di più e ricreando seppure a suo modo quell’effetto sorprendente di elevazione melodica del brano che tutti i conoscitori di “Sowing…” ricordano bene. Non la metto fra i vertici dell’album perché qui c’è veramente parecchio di derivativo.

Last Dance” e “Wings of an Angel “puzzano di Bon Jovi: non va bene, pollice verso. La seconda di esse lo fa anche col titolo, ma almeno vi si può ammirare il buon lavoro ai cori… Elliott è proprio un bravo guaglione, non si risparmia con le armonie e i controcanti vocali.

La chiusura “Blind Faith” dura almeno un minuto di troppo. Se ne sta sempre accucciata, lenta e risonante, a fare atmosfera prima col tremolo di chitarra, poi coi violini, poi con l’acustica… Dai che parte, dai che parte!… e quando alla fine parte veramente, non va tanto lontano. Rimane lì, è tardi e son già passati cinque minuti e oltre. Amen.

Giudizio finale:

Bravi vecchietti! Ancora con la passione e la voglia di allungare il repertorio, malgrado il l’incancrenito ridimensionamento del numero di chi li ama, o quantomeno li gradisce. E, meritoriamente, tutti ancora senza panza e doppio mento (seppure qualche ritocchino chirurgico qua e là è presente, per non parlare delle tinte del parrucchiere!). Phil Collen anzi è un palestrato duro e puro e a sessant’anni sfoggia ancora una perfetta tartaruga sul ventre, sempre generosamente ammiccante dietro alla chitarra che indossa.

Soddisfacente anche se tutt’altro che indispensabile quest’opera… puri Def Leppard anni ottanta rimasticati. Ma c’è molto di onesto e presentabile, offerto al massimo delle proprie forze attuali, con cura artigianale, energia, voglia, esperienza. Produzione eccellente, anche! Chitarre e batteria di primissima qualità, senza stare a rompere le balle con assoli lunghi o doppie casse ottuse, come sempre.

Il vero difetto è la minoranza di brani scatenati e potenti, pur rivestiti della loro caratteristica iper melodicità e “facilità” come solo loro sanno fare. Troppe ballate, troppa atmosfera. Peccato perché di tiro ne hanno tanto quando ci danno dentro. Più che dal vivo! Sul palco tutte queste stratificazioni di voci se le sognano, anche se hanno un microfono tutti e cinque! E anche il tiro non è lo stesso che in studio… è proprio un gruppo da dischi, più che da concerti.

Voglio loro bene e li rispetto. Un bel 7 a questo disco.

Carico i commenti... con calma