ABBA -ABBA
Questo disco ha da una parte quello che è forse il singolo spaccaclassifiche che preferisco degli ABBA ("SOS") dall'altra la canzone che è la mia personale vincitrice della più grande #diteloallozioiside di tutti i tempi e di tutti gli spazi dall'alba del Mondo e ancora tra 3000 anni, e non sto nemmeno a dire quale, dico solo che è la canzone che merita lo skip più veloce del west. Per il resto, comunque, a me piace decisamente meno rispetto a "Waterloo" o ad altri loro dischi successivi (soprattutto l'ultimo, che è il migliore) anche se l'Intermezzo strumentale di Andersson e Ulvaeus è carino, il suono è sempre curatissimo, i musicisti preparatissimi e bravi tutti, però meh. di più
Comus -First Utterance
Indescrivibile. Uno dei miei dischi preferiti in assoluto, è tutto ciò che posso dire per il resto non troverei mai le parole giuste per riportare ciò che c'è in "First Utterance". di più
Giuni Russo -Voce Prigioniera Live
Finalmente, nel 1998, un live stupendo che restituisce tutta la grandezza di Giuni Russo e va a rappresentare il secondo vero capolavoro della sua carriera a 17 anni di distanza da "Energie", al quale erano seguiti alcuni dischi molto validi (soprattutto "A casa di Ida Rubinstein", rappresentato nel live quasi per intero) e altri un po' meno, ma nessuno aveva raggiunto quelle stesse vette di eccellenza; 17 anni passati a trovare mille scappatoie per riuscire a incidere e pubblicare la musica che le interessava davvero realizzare oppure a scendere a compromessi con le case discografiche (da qui, ovviamente, il titolo di questo live) costretta il più delle volte a limitare le sue idee e il suo enorme potenziale vocale ed espressivo. "Voce prigioniera" raccoglie una selezione di concerti di Russo negli anni '90 e brilla come coronamento della carriera di un'artista straordinaria, una delle più grandi voci della seconda metà del '900, c'è poco da discuterne, qui colta al massimo del suo splendore e negli anni della sua maturità artistica. La chicca è "Nomadi" di Camisasca, che proprio per lei era stata scritta e pensata in origine, poi regalata ad Alice dopo solito ostruzionismo della casa discografica, qui torna, almeno in sede live, anzi arriva nelle mani della sua prevista interprete originale. di più
Tom Waits -Closing Time
Primo disco, 23 anni e una sfilza di canzoni che nascono per essere degli immediati classici della canzone d'autore americana, con colleghi vari (Tim Buckley nello stesso 1973, Eagles l'anno dopo) pronti come fulmini a dare la loro interpretazione di alcune di esse; atmosfere da locale notturno e fumoso, stile da crooner navigato e malinconia da cuori perennemente spezzati, anime sole, melodie incredibili che scuotono e commuovono, canzoni già vecchie e già eterne, un pianoforte come centro di gravità e una voce bellissima non ancora arrochita da abusi di alcool, fumo e da quella teatralità geniale da vecchia volpe, a volte con canzoni arrangiate per chitarra, il tutto arricchito da una tromba che si fa spesso fondamentale seconda voce e da un brano strumentale da brividi in chiusura ("Closing Time", appunto) tanto per esaltare il talento come musicista e compositore puro, al di là di canto e testi (bellissimi) e, se ci scappa, pure una botta irresistibile da esuberanza di gelataio marpione. Un disco classicissimo, il bello sta tutto nella qualità, enorme, delle canzoni, tutte quante, qualcuna addirittura più delle altre certo. Il Capolavoro del primissimo Tom Waits ('73-'75) per me è questo qui. di più
Emerson, Lake & Palmer -Welcome Back My Friends To The Show That Never Ends - Ladies And Gentlemen
L'apice del trio per me si trova nelle performance e nei dischi dal vivo, lì dove a mio avviso trovano maggior senso gli eccessi, i virtuosismi e le esagerazioni del super-gruppo e dove può essere esaltante ascoltare/vedere Emerson stuprare le sue tastiere in un'orgia di estasi mistica/luciferina/assatanata. Quindi "Welcome Back..." insieme ad un altro paio di loro live è la cosa che apprezzo di più degli Ellepì. Apice, anche concettuale, del live è ovviamente l'infinita versione di "Karn Evil 9" (35 minuti) baccanale circense di eccessi e simbolo della simbiosi Emerson/strumenti a tastiera. Tuttavia per me, anche in questo live, il momento più emozionante è quando sale in cattedra Lake. L' apice dell'album è infatti il medley di brani composti interamente da Lake "Take a Pebble/Still... You Turn Me On/Lucky Man" tutti eseguiti in versione completamente acustica. Lake da brividi. di più
Emerson, Lake & Palmer -Emerson Lake & Palmer
In studio, per me questo esordio resta il miglior lavoro del trio. Più fresco rispetto a quello che verrà, con l'esibizione all'Isola di Wight sullo sfondo, solo di pochi mesi addietro, che ancora li presentava come una rock-band; diversa, nel proporre il linguaggio del "rock", ma pur sempre una rock-band. Emerge anche qui la potenza rock, fortunatamente concisa in 5 minuti, nella splendida "Knife-Edge" che muovendosi tra Janacek e Bach ci regala una prova incendiaria, e bellissima, del trio. Gli altri due capolavori dell'album sono brani originali invece e, guarda il caso, portano entrambi la firma di Lake. Il resto (come e soprattutto "The Three Fates") invece conferma il mio scarso feeling con Keith Emerson nelle vesti di compositore. di più
The Blasters -Hard LIne
Se non sbaglio, disco concepito quando ormai i fratelli Alvin passavano almeno 15 ore al giorno a sputarsi addosso eppure, come è accaduto più e più volte in musica, il risultato è quello di un'opera che rasenta la perfezione, un capolavoro che con spirito di quel revival che viveva anni d'oro all'epoca, attraversa la maggior parte dello spettro della musica popolare americana: il pop, il rock'n roll, il rockabilly, il country, il gospel, l'R&B, la ballad, insomma "Hard Line" è il bignami esaltante della "canzone pop americana" più bello che si possa immaginare di ascoltare, frutto della maturazione come autore di Dave Alvin, che infila una dietro l'altra una serie di canzoni perfette nella loro essenzialità, senza sottovalutarne il valore dei testi, che spesso aggiungono notevole "profondità" alla semplicità musicale (penso a "Little Honey") ma anche di Phil come cantante e arrangiatore, sempre con i tocchi giusti, con i ritmi giusti, impossibile togliersi dalla testa i solini di chitarra di "Hey, Girl" o il riffetto assassino di "Common Man", o l'interpretazione grandiosa del traditional "Samson and Delilah". Come ciliegina, si accetta il regalo del Puma Mellencamp sotto forma di ennesima grandiosa canzone pop, forse il vero centro di gravità espressivo del disco insieme a "Just Another Sunday", che è il simbolo della scrittura maturata al punto giusto di D.Alvin. Masterpiece. di più
Cows -Taint Pluribus Taint Unum
Una band di vacche pazzoidi di Minneapolis. I Cows appartengono assai fieramente a quel filone di band che partendo da garage e rock'n roll grezzo si tuffava nel marasma delle più violente distorsioni noise, con in mezzo l'inevitabile lezione del punk e, ogni tanto, qualche rallentamento di una matrice blues così deformata da essere irriconoscibile o del tutto nuova, comunque. E non dimenticavano un'iconoclasta fierezza dilettantistica, una furia espressa in mezzo alla merda, la provocatoria passione nel suonare male musica, all'apparenza, brutta. E fastidiosa. Dico all'apparenza perché poi, in mezzo al rumore, alle chitarre che sono puro sfondo dissonante e senza senso, ci sono brani rock'n roll/garage/punk che sono ottimi brani rock'n roll/garage/punk tipo "Sieve" "Yellowbelly" "Mother (I Love That Bitch)" per dirne alcuni. C'è il divertimento di suonare canzoni che sembrano prese per il culo da quanto sono storte e malfatte, e divertenti risultano davvero (e quella trombetta che spunta ogni tanto, tutta sbagliata, che bella; e la genialoide cover di Philip Glass ? Bellissima, cioè bruttissima). Certo, se uno mi dicesse "ma che è sta merda" avrebbe tutte le ragioni e, probabilmente, bisogna essere matti per apprezzarli ma tant'è... Questo loro disco di esordio, uno dei più storti e pazzi della loro discografia, è il miglior biglietto da visita possibile per la musica delle Vacche di Minneapolis. di più
Lydia Lunch -Queen Of Siam
Nenie morte, cantilene divise tra la noia e il mal di vivere, a volte oltre il limite dell'irritazione ("Tied and Twist"), con quella vocetta da dodicenne in preda a languori sessuali, che verso metà del disco sfumano in fumosi e notturni swing-jazz-blues da locale malfamato, da vecchia canzone di un(a) crooner poco raccomandabile, dove la bambina si fa ironica, ammiccante, nel suo parlato-cantato ("Lady Scarface") o in cabaret grotteschi pieni di storture ("Carnival Fat Man") e diventa fondamentale l'apporto della Billy Ver Plank Orchestra così come è fondamentale l'apporto di Pat Irwin per l'intero disco, in brani che presentano spesso code strumentali quando la nenia di Lydia si esaurisce ("Cruise to the Moon" è addirittura interamente strumentale, ed è una delle migliori). C'è anche della concessione alla canzone pop, quel pop degli anni '60 che la "Queen of Siam" ha spesso dimostrato di prediligere; in questo caso è la sua personale versione di "Spooky", uno dei momenti più "catchy" e divertenti del disco. L'altra cover, "Gloomy Sunday", che già di suo vivace non è, viene completamente assorbita nel mood da nenia in stato comatoso della prima parte del disco, tra l'altro uno stile che a questa canzone calza a pennello. Questo è di sicuro un esordio solista che lascia il segno, non poco. Disco molto bello per quanto ci siano cose sue che ho apprezzato anche di più. di più
Clint Ruin & Lydia Lunch -Don't Fear the Reaper
Ecco, questo mi piace anche di più di "Stinkfist", più accessibile ma bello malato comunque. C'è ancora "terrorismo sonoro" (Clinch) ma qui Ruin e la Lunch si divertono anche con le cover di due pezzi pop come la title-track e addirittura con i Beatles dell'album bianco, due splendide cover (quella dei BOC è un capolavoro, IMO). Il capolavoro però è "Serpentine" di Ruin, elegante e oscuro duetto tra le due voci con accompagnamento di tromba. Ep "divertissement" tra i due ma splendido. di più
Clint Ruin & Lydia Lunch -Stinkfist
J.G. Thirlwell in una delle sue 100 identità affiancato da una compare perfetta come non mai quale Lydia Lunch si diverte scatenandosi in tre tracce di puro terrorismo sonoro, a tratti devastante. "Meltdown Oratorio" con le declamazioni della Lunch è sublime. Nel quarto brano arriva pure Thurston Moore, autore del pezzo insieme alla Lunch e tutti e tre fanno un chiasso del diavolo. Il duo ha fatto di meglio in separata sede ma per i fan dei tizi qui è da avere. Bella copertina :D di più
Steve Hackett -Wolflight
Il passo falso di Hackett nell'ultimo decennio, uno dei suoi dischi meno belli che tra l'altro è posto in mezzo a due album molto più ispirati. Ci sono un paio di canzoni non male (la title-track è bellina ad esempio, anche "The Wheel's Turning" ) ma per il resto lo trovo debole, piatto, molto deludente, poche idee e anche pasticciate. Ci sono melodie, arrangiamenti e soluzioni in parecchi brani che vorrebbero essere epici ma sfiorano il pacchiano, qualche volta lo incontrano proprio e gli battono il cinque, è un disco pesante da ascoltare, noioso, anche se qua e la in quasi tutte le canzoni c'è quel pezzo o quel passaggio di chitarra che ok, è bello, ma non basta. Terribilmente pacchiana anche la copertina... Belli i lupacchiotti per carità, ma l'effetto generale mamma mia, no. Per me, aspettando di ascoltare l'ultimo appena uscito, il decennio 2010-2020 è stato fruttuoso per Hackett da un punto di vista qualitativo, "Wolflight" unico mezzo giro a vuoto. di più
Steve Hackett -Tribute
Lo Steve Hackett per chitarra classica è sempre quello migliore, a mio gusto (sarà che adoro il suono dello strumento) anche quando incide un disco in condizioni di fortuna e in un periodo a dir poco complicato, ovvero in pieno divorzio burrascoso con l'ormai ex moglie Kim e in guerra anche col manager che gli avevano tolto anche la possibilità di registrare musica in uno studio (oh, per dirla in breve eh). Questo disco Hackett se lo è dovuto suonare e registrare in casa sua, in uno studio improvvisato, probabilmente mentre Kim stava lì a staccare la moquette dal pavimento per portarsi via anche quella (ragà, mi sa che ci ha detto culo che non è venuta a casa nostra a richiederci indietro le sue copertine dei dischi del marito, scherzo Kim, non fare causa a DeBaser). A parte il fido King alla produzione e al missaggio qui c'è solo Hackett e la sua chitarra. Basta. Nemmeno il fratello al flauto. Solo lui. Lui e gli autori classici omaggiati, perché qui Hackett si affida al porto sicuro di esecuzioni di pezzi altrui. Il più rappresentato è Bach, ovviamente, in fondo fu lui in origine ad aprire a Steve nuovi "Orizzonti" chitarristici, molti anni prima. E niente, sarà anche un disco fatto per necessità (era l'unico tipo di disco che poteva permettersi di fare in quel momento, di fatto) ma è pur sempre Hackett che suona alla classica Bach e compagnia. Una perla. Giù il cappello. di più
Steve Hackett -Defector
"Defector" mi ha sempre lasciato abbastanza freddo e abbastanza deluso, è un discreto lavoro, a tratti anche qualcosa di più, ma non riesco a togliermi dalla testa l'idea che sia il fratellino sfigato di "Spectral Mornings", persino l'artwork di Kim è meno bello di quello precedente. Metà del disco è strumentale, il che non è un gran problema visto che i cantanti raramente sono il punto forte dei suoi dischi (a meno che non avesse assunto a tempo pieno Sally Campovecchio, per dire), i pezzi cantati sono le quiete "Leaving" e "The Toast" classic ballad hackettiane, belle canzoni, e poi i due brani dove Hackett vira maldestramente verso una strada più pop, magari in un tentativo di combinare qualcosa in classifica. Tipo che ti ritrovi "The Show" con quel basso slapposo che dici "ma è Hackett o è AnoderUanBaizddeDast" e che mi piace un sacco... Il basso, dico, la canzone è un po' una schifezza. Così come "Time to Get Out" non brutta ma loffia. In quel 1980, i suoi ex-compari erano molto più ispirati in ambito pop. Poi c'è il divertissement retrò finale, simpatico. Altalenanti anche gli strumentali, pallosa "The Steppes", riuscita e ottima la solare "Jacuzzi", che ve lo dico a fare il pezzo per chitarra classica, non malaccio ma nulla di eccezionale le restanti. Non so, è un netto passo indietro dopo Spectral, da qui per un paio d'anni inizierà una fase più "pop" con il poco riuscito "Cured" e il decisamente più valido "Highly Strung". di più
Steve Hackett -Guitar Noir
"Guitar Noir" è un bel disco di un artista giunto alla piena maturità, un lavoro raffinato, elegante e dalle atmosfere spesso soffuse, delicate quando non cupe o malinconiche. Questo è anche uno dei dischi in cui Hackett riesce a far convivere meglio la parte acustica e quella elettrica della sua musica, in costante interscambio e dialogo tra loro nella maggior parte delle canzoni, con l'ottimo aiuto delle tastiere di Magnus, seguendo una strada ben definita, ancora lontana da quell'eclettismo furioso che dominerà i suoi dischi del decennio successivo. Poi Hackett lascia che "anima" acustica e "anima" elettrica prendano strade separate e così escono due dei pezzi migliori, due strumentali, "Walking Away From Rainbows" per chitarra classica e "Sierra Quemada" che è il brano elettrico più tipicamente "suo" nello stile chitarristico, brano che sarebbe stato bene anche su "Spectral Mornings" per capirci. Gli altri due pezzi che elevano il disco sono "Vampyre With a Healthy Appetite" e poi, ovviamente, la splendida "There Are Many Sides of the Night" che attraversa da sola l'elettrico, l'acustico e persino l'orchestrale, tutto lo scibile hackettiano, la vetta del disco. Punto più basso, la simpatica ma isolata "Lost in Your Eyes" che stona con il resto e, francamente, è caruccia ma non un granché. Per il resto belle canzoni (in media) raffinate che contribuiscono a fare di "Guitar Noir" uno dei lavori più omogenei e riusciti dell'Hackett elettrico post-'79. di più
tony banks -a curious feeling
Fu un buon esordio solista, un lavoro più che discreto che non lasciava presagire la futura pochezza dei dischi in proprio (e non solo, ehr...) di Totonno Banche. Diciamo che segue una scia, a livello di sonorità e scrittura, molto vicina a quella di "And Then There Were Three" e d'altronde era questa la cifra stilistica del Banks autore di fine anni '70, un pop elegante e raffinato con spunti prog, melodico, lineare, romantico e un po' malinconico e ovviamente incentrato sulle tastiere. Totonno essendo un orso totale, suona tutto da solo, dal pianoforte al triangolo equilatero, chiama giusto Chester Thompson alla batteria e un cantante, Kim Pancetta, dalla voce pulita, chiara e per me un po' anonima, con certe canzoni che improntate sulla sua vocalità tendono quasi a sonorità semi-aor per le quali non impazzisco. In realtà l'unico brano che mi regala vere emozioni è l'ispirato strumentale "Waters of Lethe", con bellissime melodie banksiane e Totuzzo che si diletta anche alla chitarra elettrica. Il resto sono canzoni o strumentali più che gradevoli, giusto un paio di cacatelle (brutta forte la taitoltrac) ma il resto è musica piacevole. Certo non è un disco particolarmente bello o chissà cosa, se poi pensiamo che è il suo migliore, bah, peccato. Lo dico, degli esordi solisti dei vari Genesis è quello meno bello secondo me. di più
Queen -Sheer Heart Attack
Un album che mi piace molto, solo un pelo inferiore al precedente e assolutamente alla pari con il successivo. Il solito, divertentissimo circo queeniano al massimo dello splendore e dell'ispirazione, qui più che mai vengono anticipate idee poi presentate su "A Night at the Opera" l'anno successivo. "Sheer Heart Attack" è un disco vivace, vario, colorato, kitsch, glam, pop, hard-rock, cabaret, stacchetti musicali, cori sopra le righe, melodie splendide e tamarreide scema, riconoscibili in un quarto di nota. Altro pregio, molto più evidente che in "Queen II" e "Opera", è la compressione delle molte idee, dal kitsch esagerato alle melodie più dolci, in canzoni molto brevi, un paio di minuti di media, due minuti e mezzo tiè, a volte anche meno, come nel delicato bozzetto di un minuto di "Dear Friends". Sono schegge di canzoni, frammenti di perle pop-rock-glam ("Killer Queen", "Flick of the Wrist"), di delicate ballad ("Lily of the Valley") di rock fulmicotonici ("Stone Cold Crazy") brevi momenti di geniale bizzarria retrò ("Bring Back That Leroy Brown"). Poi c'è "In the Lap of the Gods" che è croce e delizia, trash e bellezza dei Queen, esplicativa del loro stile, e la versione "Reprised", quasi la prima "rock-arena" song di Mercury. Funzionano alla grande anche i pochi brani lunghi (soprattutto "Brighton Rock" palcoscenico per un grande May alla chitarra e "She Makes Me", sempre di May). di più
Queen -A Day At The Races
L' ultimo vero bel disco dei Queen prima di "Innuendo", quindici anni dopo. L'ho anche rivalutato, questo Giorno alle Corse, è inferiore ai tre dischi precedenti ma solo di poco, è un bel lavoro che chiude il discorso della "maturazione" o della maggior ambizione iniziato, alla grande, con la Notte all'Opera. Un quartetto di canzoni per me particolarmente riuscite: "Somebody to Love", ovviamente, una delle migliori del repertorio mercuryano, l'altra queenata al 100 & "The Millionaire Waltz", che riprende l'operetta/suite alla Rapsodia zemaniana con cambi di tempo, ritmo e stile e risulta quasi altrettanto riuscita, molto bella; il solito scherzo-old fashioned di "Good Old-Fashioned (appunto) Lover Boy" e la conclusiva ballatona corale "Teo Torriatte", ruffian...ehm omaggio ai fan giapponesi della band, con tanto di cantato poliglotta di Federico Mercurio, melodia splendida ma anche ritornello "da stadio" che l'anno successivo troverà definitiva sublimazione nelle due canzoni più rotturadicazzo in tutta la storia della musica. Dalla parte hard-rock invece trovo che "White Man" sia più bella di "Tie Your Mother Down" (orecchiabile, carina, ma nulla di eccezionale), e poi c'è qualche piccola perla sparsa tra i brani minori, che sono tutti molto carini in realtà, forse la più caruccia tra questi è "Drowse" di Taylor. di più
Ufo -Obsession
Be, quest'ultimo disco in studio con Michelino alla chitarra è decisamente il meno bello degli UFO anni '70. Per carità, un più che passabile disco di rocchettino/hardrocchettino, ma a livello di songwriting è decisamente in tono minore rispetto ai quattro dischi precedenti, che viaggiavano stabilmente su un binario di canzoni tra il buono e l'ottimo. Gli Ufo fino a quel momento avevano sempre scritto cose semplici, classiche, ma belle canzoni, eccome, belle idee melodiche, bei rocchettoni, begli assoli, bello tutto, qui invece cominciano a farsi strada quelle orribili ballatone strappamutande da arena-aor che per carità tagliatemi le vene piuttosto ("Looking out For N.1" è tra tutte quella che di più mi fa cacare) e in generale, anche se "Only You Can Rock Me" è un azzeccatissima opening per il disco, ci sono poche canzoni che potrei definire più che "carine", 2-3 buoni pezzi rock, non più di questo. Un disco passabile ma molto inferiore ai precedenti e non la più brillante chiusura per il periodo migliore della loro carriera. di più
UFO -PHENOMENON
Classico ormai masticato, degustato e digerito da tempo ma che è sempre bello rimettere sui fornelli audio di tanto in tanto. Mi piace molto, un perfetto disco di rock-classico anni '70 con punte di ottimo hard-rock ("Rock Bottom" raggiunge le vette del genere e si, nel '74 andava di moda 'sto titolo per dischi e canzoni) ispiratissimo dall'inizio alla fine dove tutte ma proprio tutte le canzoni sono belle, dai più tirati brani rock alle ballad (con tanto di strumentale "Lipstick Traces" e mettiamoci pure una cover di Dixon che non si sa mai, vedi "Built for Comfort"), va tutto liscio alla grande. Erano passati tre anni dal secondo disco in studio e dal primo live, giusto il tempo per tracciare una nuova traiettoria artistica e acquistare al discomercato del '73 il fuoriclasse tedesco della chitarra elettrica, il giovane tamarro Michele, che prende subito le redini anche compositive della band, insieme a Mogg. Tre anni spesi bene, perché anche in versione 2.0, strutturalmente semplificata nelle canzoni, gli UFO, che di spaziale ormai hanno solo il nome e la copertina di questo disco, risultano altrettanto e probabilmente anche più efficaci rispetto agli esordi, tirando fuori 4-5 dischi molto validi fino al '79 dei quali questo, forse, resta il migliore ma è difficile dirlo. Disco ottimo davvero. Prodotto da Leone Leoni, bassista di quell'altra band di scarsi dei Ten Years After... di più