Il tasto play, il volume a palla, le cuffie in testa.

Arriviamo al Blue Note presto, come sempre. Mentre ci facciamo dare i biglietti arriva una signora inglese. Dice - in uno stentato italiano - sono la mamma di Matthew Garrison. Di là, a pochi metri, suona suo figlio.

Cerchiamo di farci passare - prima l'uno poi l'altro - per il papà del sassofonista che sentiamo. Non so perché non ci credono.

Fa niente, si va a mangiare. E poi si torna. Per primi, come sempre. Ché una delle cose più belle di questo posto qui è che sei a un centimetro dal palco.

A meno di un centimetro mi è capitato - in altre occasioni - di vedere McCoy Tyner, decisamente non proprio messo bene, o Marcus Miller, o Simona Molinari, che non è proprio assisa nello stesso Olimpo dei precedenti, e poi insomma, magari l'altra inquilina di questa casa sbircia, non si può mai sapere.

Entriamo, per primi, e facciamo la cazzata.

La cazzata non è quella di ordinare ai gentilissimi camerieri un piatto di patatine che ti costano quasi più di uno stipendio da statale.

No, la cazzata è decidere dove ci sediamo. Perché proprio in fronte non è il massimo. C'è una cassa, un monitor, che dà un po' fastidio. Di solito preferiamo un lato. Anche nel caso di Simona Molinari, un giorno ve ne parlo.

E, che lato? Beh, il mio socio ha suonato il piano, c'è un bel pianoforte, quel lato lì. A meno di dieci centimetri dal piano.

E via, belli contenti, ad aspettare. Che i tre arrivino.

Già, tre. DeJohnette, ovvero uno della santissima trinità (lui, Peacock, Jarrett), alla batteria, Ravi Coltrane, di fu John e fu Alice, al sax tenore e alto.

E Matthew Garrison, di non fu mamma che abbiamo visto prima, al basso.

Un dubbio ci percorre: CHI CAVOLO LO SUONA IL PIANO?

Risposta: nessuno.

Per cui assistiamo a un magnifico concerto a meno di un centimetro da tre signori che decisamente sanno il fatto loro, non avendo molto da guardare se non quel poco che si intravede sotto un pianoforte nero.

Posso comunque assicurare che Ravi aveva delle scarpe stranissime e Jack un fantastico orologio. Matthew non l'ho praticamente visto. Se non quando è sceso dal palco gli ho fatto segno uno, per dire fate un bis e lui ha risposto sì siamo i numeri uno.

Punto, fine delle chiacchiere. Il primo pezzo - non lo annunciano - inizia con Jack che suona una campana, e lascia che il suono si perda nel silenzio. Poi si siede. E inizia - con grazia - a tenere il ritmo. E parte Ravi. E a me viene in mente una cosa.

Alterneranno varie cose, tra cui anche Blue in green da Kind Of Blue. Avremo - in un pezzo - Jack al piano. Non è più giovanissimo. Suona spesso con gli occhi chiusi. Quando parla spesso non si capisce cosa dica. Quando è seduto alla batteria ha una grazia (l'ho già detto?) che non sai resisterci.

Scendono dal palco, tranquilli, parlano tra loro. Tornano per un meraviglioso bis.

Finito, in attesa del concerto seguente (al Blue Note ne fanno due a sera) Jack si ferma a parlare con una ragazza. Siccome devo passargli davanti per uscire gli chiedo un autografo. Gli do la penna, non riesce a scriverci. Ma scrive. Ecco ce la fa. Non mi stupisce. È grazia.

Se siete curiosi è la foto che vi allego.

Il tasto play, il volume a palla, le cuffie in testa.

La fine di una giornata di pioggia. Grigia, fredda di incazzature.

Quell'idea. Quel suono, lontano, sentito nel primo pezzo.

Love, da First Meditations (For Quartet), John Coltrane.

Un uomo, che parla da solo. E che parla a tutti, perché parla col cuore.

Non credo che smetterò molto presto di schiacciare replay.


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