Ci sono brani che hanno segnato la storia del metal dell'estremo: uno di questi è senz'altro “Total Desaster”.

"Total Desaster” è uno di quei concentrati di cattiveria che frequentemente s'incontrano nella decade ottantiana, il decennio indubbiamente più genuinamente ed ingenuamente cattivo della saga metallica: il decennio che ogni cattivo dell'heavy metal che si rispetti deve tutt'oggi attentamente studiare per capire da dove si deve attingere per poter sviluppare nuove forme di violenza musicale.

Certi puristi potrebbero bacchettarmi ammonendomi che in fin dei conti una certa concezione musicale si era originata ben prima dalle movenze del punk tellurico dei Motorhead, veri maestri della velocità elettrica senza compromessi, in anni in cui il rock tentava malamente ancora di evolversi e l'elettronica, a braccetto con il neonato movimento industriale, iniziava ad assalirci con temibili beat spacca timpani. E si potrebbe ancora guardare indietro, volgendo lo sguardo a gente come MC5 e Stooges, fautori del rock'n'roll più incasinato, da cui in effetti tutto ha principio. Ma negli anni ottanta, l'alienazione ed il degrado della società industrializzata cedono il passo alle paure per l'olocausto nucleare, alle inquietudini del declino ambientale, alle tensioni della Guerra Fredda: non è più rock'n'roll quello degli anni ottanta, è una forma estrema dell'ignoranza e della mediocrità dei tempi che corrono: come potrebbe insegnarci J.G. Ballard, la devastazione globale si confonde con la devastazione della mente, ottenebrata dalla tecnologia e dalla ipertrofia dei mass-media; il satanismo birraiolo dei Venom è già vecchio di cent'anni, la musica estrema diviene l'espressione di una rabbia incontenibile ed incondizionata che non porta più in sé l'utopia e lo spirito di denuncia tipiche delle decadi precedenti; non ha bersaglio, né si capisce dove trovi origine, è solo distruzione, incazzatura che non cresce più nei sobborghi degradati delle nuove megalopoli, ma assume forme subdolamente borghesi, qualunquiste, diviene vuota di contenuti. E' violenza apparentemente priva di fondamenta, affrescata con un puerile satanismo di facciata, mitigata dagli stilemi e dal manierismo che spesso contagiano i musicisti che nel tempo hanno incarnato il multiforme verbo del metallo. Ma anche questa è una realtà sociologica da accettare e comprendere, in un contesto in cui anche il bottegaio, lo scolaretto ed il porno-attore (note le “misure” del vocalist e bassista Marcel “Schmier” Schirmer, che non si esimerà, nel corso della sua brillante carriera artistica, dal cimentarsi in imprese a luci rosse), anche il bottegaio, lo scolaretto e il porno-attore, si diceva, nel loro piccolo s'incazzano!

Negli anni ottanta, nell'antica Europa, un po' più ad est dei Celtic Frost, un po' più a sud dei Bathory, c'erano i Destruction: trio teutonico di improbabili parrucconi dediti a sfogare la propria incompetenza tecnica sulla scia di quanto combinato dall'altra parte dell'oceano da Exodus, Metallica e Slayer.

“Sentence of Death”, che segue di un anno il sublime quanto pastrocchiato demo “Bestial Invasion of Hell” (1983), è il loro primo lavoro servito in veste “professionale”: un succoso EP di cinque pezzi che ad oggi appartiene di diritto al manuale del metal estremo, insieme ai due full-lenght che lo hanno seguito, quell' “Infernal Overkill” e quell' “Eternal Devastation” che costituiranno saggi importantissimi nel manuale del perfetto thrasher, alla voce “come spaccare il culo senza sapere suonare un cazzo”.

In “Sentence of Death”, più che altro, c'è Total Desaster, brano da cinque stelle che non solo vale tutta la carriera dei trio di Lorrach, ma rimane fonte inesauribile di ispirazione per i grezzi di tutto il mondo, abitato e non: un luogo all'interno del quale possiamo rinvenire almeno tre generi musicali, presenti, passati e futuri, nella cui commistione sono rinvenibili i semi di quello che verrà definito in seguito black metal. Il vero black metal, intendo, non quello dei Venom. E, non me ne vogliano i puristi, secondo me il vero black metal, per lo meno per come lo intendiamo oggi, è quello che ritroviamo nel fondamentale “A Blaze in the Northern Sky” dei norvegesi Darkthrone, quasi un decennio più tardi.

Siamo infatti ancora nel 1984: il brano si apre con un'introduzione cacofonica di assoli epilettici in perfetto stile “Hell Awaits”, dopo che il rantolo di un vocione gutturale ha servito la fetida pietanza alla stregua di un maitre posseduto da Satana in persona. Una batteria sparata a mille irrompe trascinandoci per una tremenda cavalcata in cui all'ascoltatore non viene lasciata alcuna tregua. Dove sta il black metal, voi direte? La forma, in effetti, è sempre quella tipicamente thrash di inizio decade, dove chitarre taglienti macinano riff ripetitivi trasportando il falsetto orripilante di uno sgolato che definire cantante sarebbe un atto criminoso. Eppure, complice la scarsa tecnica e l'altrettanto non buona definizione dei suoni, già assistiamo a quell'apoteosi di rumore impastato che eleverà a status metafisico la velocità tipica del black metal. Il ritornello è appena di poco preceduto dall'accartocciarsi del rullante, ma la batteria continua la sua folle corsa, ed anche in questo troviamo una tipica caratteristica del black metal che verrà: quella di impostare le atmosfere di un brano su variazioni tematiche innestate su un pattern ritmico fondamentalmente privo di cambi di tempo (superando così il tipico stacco ultra-mosh ancora tipico nel thrash metal dell'epoca). Ma è da metà del pezzo che si può iniziare a ragionare seriamente di black metal, quando un agguerrito riff guerrafondaio scava sempre più profondamente nel senso del termine "violenza", emancipa il pezzo e lo porta su una dimensione esageratamente epica (non nell'accezione vichinghesca di Bathory), mentre il grido agonizzante di Schmier diventa un gracchiare orrendo che aprirà molte strade. Non è un caso che il pezzo verrà coverizzato dagli stessi Marduk nel loro tostissimo live “Germania”.

Seguono quattro brani tutto sommato onesti, che certo faranno la gioia di tutti coloro che amano il timpano rovente.

Black Mass” si apre con assoli che sembrano ambire ad un senso melodico, ma è solo un miraggio: il pezzo si concluderà con un blast-beat ante-litteram, confermando le buone intenzioni dei tre distruttori, di diritto portabandiera della frontiera più avanzata del metal di quel periodo assieme al collega svedese Quorton, altro paladino del black metal che verrà.

"Mad Butcher” è un altro classico del repertorio, altro assalto all'arma bianca, tour de force metallico squarciato da assoli fulminani e riff che non trovano posa nell'incredibile dinamismo che il buon Mike Sifringer, pur non essendo Malmsteen, riusciva a conferire alle sue composizioni. Una marcia chitarra arpeggiata (altro cliché tipico del black metal più atmosferico) conclude il brano ed apre quello successivo, “Satan's Vengeance”: altra staffilata in cui la melodia iniziale viene presto dimenticata.

E pur nella loro mancanza di grazia, ai Destruction ho sempre riconosciuto, per lo meno nei loro primi dischi, un'intelligenza compositiva, una sana creatività nel saper confezionare, nel modo più semplice possibile, composizioni vincenti, refrain accattivanti pur nella faraginosità delle strutture e nella pressoché assenza di melodia. Prendiamo “Devil's Soldiers”, per esempio, e i suoi cambi di tempo spacca-ossa, ove un micidiale mid-tempo irrompe bastonando le nostre orecchie come accadrà nei migliori Immortal ben più di dieci anni dopo.

Che altro dire, gente: questi ragazzi scrivono in nemmeno venti minuti un gran bel capitolo del metal estremo. Ed io, che ho scritto tante cazzate, sono perlomeno riuscito a stendere una recensione dei Destruction senza nominare Sodom e Kreator... se vi pare poco...

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