Primo! Finalmente riesco ad apporre la mia firma su una recensione dei Diaframma! - peccato però che l’opportunità mi si presenti in occasione dell’uscita dell’album che meno mi ha convinto della storia recente della band fiorentina.

Piccolo passo indietro, quindi, rispetto alla tendenza inaugurata da quel “Difficile da Trovare” (del 2009) che, senza farci gridare al miracolo, segnò l'inizio di una sorta di nuova giovinezza per la creatura di Federico Fiumani: “Niente di Serio” aveva fatto di più, consegnandoci un Fiumani tonico, autorevole, ispirato nei testi quanto nelle musiche, ed una band ben oliata alla sue spalle. Di quella release ricorderemo senz’altro un pugno di brani destinati ad entrare nella storia della band: “Madre Superiora”, fra le prove più belle che l’italico cantautorato ci abbia regalato nell’ultimo ventennio; “La Botta di Energia del Rock”, frizzante come il Fiumani non riusciva ad essere più da tempo, anch’esso un brano destinato a divenire un classico della band; e “Grande come l’Oceano”, semplicemente un capolavoro, a mio parere una delle discese autobiografiche più emozionanti che il Fiumani poeta e cantore di se stesso ci abbia mai donato.

“Preso nel Vortice” (già il titolo e la copertina mi han fatto sogghignare; le ospitate annunciate, poi, eran da leccarsi i baffi!) poteva quindi costituire l’accattivante appendice di una stagione felice per l'autore fiorentino, quando invece ci pare che costui arrivi con il fiato corto a celebrare la tappa del suo sedicesimo album da studio. Le prime avvisaglie, ahimè, si hanno con la fiacca opener “ATM”, che già dalle prime note (che evocano in maniera imbarazzante l'andamento sornione di “Absurdo Metalvox”, nemmeno da indicare fra i momenti più entusiasmanti dell’ottimo predecessore) puzza pesantemente di già sentito, così come le altre tredici (molte, troppe) tracce che seguono, tanto che arrivare al termine dei ben cinquantotto (molti, troppi) minuti di durata del dischetto diviene un'esperienza spossante anche per il fan più affezionato.

Spiace parlare in questi termini di Federico Fiumani, a cui vogliamo un mondo di bene: artista che ammiriamo per quello che ci ha regalato, per le qualità compositive, per l’onestà intellettuale e per l’integrità artistica, e che per questo seguiamo da sempre con affetto e passione, e che sempre supporteremo, uomo/artista di cui conosciamo limiti e difetti, difetti e limiti che volentieri siamo disposti a perdonargli. Ma questa volta, nonostante tutti gli sforzi che possiamo fare, nonostante non si parli assolutamente di disastro, l’ago della bilancia finisce per propendere verso un vago senso di delusione. Se non di noia (che è peggio!).

E mica perché sia cambiato qualcosa: Federico Fiumani, il “canzonettaro” Federico Fiumani, perennemente sospeso fra lo spirito gigione di Joey Ramone e quello bambinesco di John Lennon, il Federico Fiumani con lo sguardo torvo ancora rivolto con nostalgica affezione ai tempi in cui folleggiavano Sex Pistols, Clash, Wire e Television, più con la mente che con i fatti, a dire il vero, dato che ormai entrambi piedi son saldi sul terreno di un bislacco cantautorato che, tolti i guizzi e le testate di genio di uno che ha fatto la storia della new-wave tricolore, ci appare assai canonico; il testardo ed inossidabile e capriccioso Federico Fiumani, si diceva, continua a giocarsi le sue carte con sincerità, ma forse, questa volta, apparendoci un pelino più stanco e infiacchito dal trascorrere degli anni.

Già dalla copertina, come dalle foto scattate che possiamo trovare nel booklet, emerge un Fiumani più vecchio, stanco ed accigliato del solito, nonostante il contrasto sbarazzino con la T-shirt a testa di cazzo a cozzare con i capelli bianchi che striano il ciuffo ribelle. Una stanchezza che non si ripercuote solo a livello di scrittura e di esecuzione, la quali a tratti sfiora un dilettantismo un po’ troppo ostentato, anche per un artigiano del rock come Fiumani – si guardi all’elementarità di certi passaggi o alle svariate stecche che si concede il Nostro con grande nonchalance dietro al microfono. Una stanchezza, si diceva, che si estrinseca anche nella forma di una una malinconia più accentuata del solito. Il vortice che prende il Fiumani non è solo il turbinio della vita da musicista che lo vede oggi costantemente in tour su e giù per l'Italia in bar, pub, locali e festival di modeste dimensioni, o a produrre dischi a nastro, o l'eterna centrifuga emozionale delle “sue” donne e dei “suoi” amori; c’è anche la girandola dei ricordi a frullare inesistente, ed ad ogni giro la mole dei rimpianti, delle occasioni perdute, di quello che fu, di quello che avrebbe potuto essere, si fa più ingombrante. Tanto più che oramai la gioventù è alle spalle, mentre quel che verrà è ignoto e poco rassicurante, le rughe e i capelli bianchi aumentano, e i dubbi con loro: questo pare essere il vero tema “nascosto” di “Preso da Vortice”, l'ossessione che si cela dietro alla scanzonata e disillusa poetica “fiumana” di questo lavoro. Ovvio che Fiumani non invidia la rassicurante e grigia vita borghese da lui sempre rifuggita, ma qualche domanda l'indomabile Peter Pan della musica alternativa italiana se la fa: “Chi sono? Che faccio?”, soprattutto “Per quanto ancora potrò andare avanti?” Ed ammette di vivere nell’angoscia e che solo la consapevolezza di avere fondato un gruppo, di essere un musicista, gli dà la forza per continuare, o almeno la sensazione di sentirsi meno solo. Niente di nuovo, direte, ma tutto, aggiungo io, espresso con meno allegria del solito.

Da qui la dedica allo storico amico Piero Pelù in “Ottovolante”. Da qui i testi sconsolati di “I Sogni in Disparte”, il tripudio dei rimpianti/rimorsi, e “Il Suono che Non C’è”, dichiarato tributo a quel suono tanto amato in gioventù, ma che come tante belle cose non c’è più, brani che non a caso vedono la presenza di vecchie amicizie quali Alex Spalck (Pankow) e Marcello Michelotti (Neon), compagni d’armi dei bei tempi che furono (la sfavillante scena new-wave fiorentina degli anni ottanta). E visto che si parla di ospiti illustri, come non citare il cammeo di Max Collini (Offlaga Disco Pax) in “Ho Fondato un Gruppo”, e i vari contributi forniti dal tuttofare Enrico Gabrielli (Calibro 35 e molto altro), alle tastiere, al sax e persino all’armonica a bocca: apporti che, a dirla tutta, incidono ben poco sul risultato finale (anche per colpa di un mixaggio un po' asettico che poco gioca sulle sfumature e che rende i suoni meno pieni e consistenti che in passato), laddove gli stessi Luca Cattaneo (basso) e Lorenzo Moretto (batteria), oramai a tutti gli effetti Diaframma, poco possono, nonostante l’impegno, la professionalità e la costanza, nel supportare il talento sbiadito del loro loro leader e deus ex machina del progetto, laddove, si sa, in un disco dei Diaframma l’unico uomo che può fare il buono e il cattivo tempo è Federico Fiumani.

Un Fiumani quindi non perfettamente a fuoco (sua dovrebbe essere stata l'immagine sfocata in copertina, e non quella dei suo diligenti collaboratori) e a tratti svogliato, sia dietro al microfono che alle sei corde, è colui che a fasi alterne ci traghetta lungo questa oretta di morbosa ed impietosa auto-analisi: non mancano tuttavia le zampate vincenti e le occasioni in cui Fiumani è in grado di mostrare di possedere ancora la stoffa del campione. “Clauda mi Dice” presenta per esempio un testo divertente ed un finale in cui il Nostro sembra ricordarsi tutto ad un tratto di essere stato la penna più autorevole della musica alternativa italiana; la già citata “Ho Fondato un Gruppo” (bello l'andamento bombastico in stile Clash; intelligente l'intervento del Collini, che probabilmente ci vuol dire di più di quello che può sembrare) sa miscelare malinconia e spensieratezza come solo il Nostro sa fare; la medesima sensazione si ha con “Il Suono che non C'é”, mentre il top lo raggiunge “Infelicità”, sicuramente l’episodio meglio riuscito dell’album, di cui riporto il testo per intero:

Nuoto in questa infelicità

Lago, foresta, infelicitàDomani cambio: faccio il volontariato, do il sangue

Domani cambio, non posso continuare io, così

Compro disco che non ascolto mai

per ricordarmi di quando li ascoltai

dentro un negozio.

Cerco porte per scappare

e ritrovare la voglia di suonare ancora, io.

Mano nell'ombra, mi accarezza.

Mano nell'ombra, non mi lascia.

Infelicità

Uno dei testi più scarni ed affossanti mai scritti dal Fiumani, che nella sua brutale semplicità si stende, per mezzo di una voce strascicata e baritonale, su un inquietante arpeggio, per un pezzo perfettamente riuscito che riscopre la vena più squisitamente dark dell'autore, vena che pareva da tempo sopita: un capolavoro in un mare di “carinerie”. Carinerie che ci accompagnano senza tanti altri sussulti (“L'Amore è un Ospedale”, con il ritornello cantato in “doppia voce” è tutto sommato un altro momento tramandabile, come del resto lo è “L'Uomo di Sfiducia”, altra ballata ironica dal retrogusto amaro in tipico stile Diaframma) fino alle conclusive “Venisse il Sole”, nella quale finalmente si rispolvera un'irruenza più autenticamente punk'n'roll, e “Voglia di”, tipico messaggio di spensierata rassegnazione con cui il Fiumani ama sovente concludere i propri lavori.

“Preso nel Vortice”, in conclusione, è un album probabilmente più lungo rispetto a quella che è la quantità effettiva di idee a disposizione, ma potrà, per i motivi più disparati, non dispiacere ai più, in quanto capace di offrire le diverse sfaccettature del Fiumani artista/musicista/poeta, suonando come il compendio di una carriera (o almeno della sua porzione più recente): un lavoro che si presta alle letture più soggettive e nel quale ognuno saprà identificarsi e giovarsi dei momenti che sapranno (anche involontariamente) creare maggiore empatia. Un album che infine riesce a soddisfare nonostante gli innegabili elementi di debolezza, e questo (pare un paradosso) perché non c'è cosa al mondo che più ci appassiona di un delinquente che canta e che suona.

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