Ciao a tutti, ben ritrovati e, soprattutto, buona estate!
Come ormai saprete torno raramente, e solo per precise occasioni, a recensire con e per Voi in questo pur splendido sito, a seconda degli eventi, di sensazioni, impressioni o più semplicemente del caso.
L'evento, questa volta, è di quelli festosi, e proprio il caso (o il Caso?) ha voluto che non fosse festeggiato affatto in un'area di libero scambio d'opinioni artistiche come DeBaser, nonostante la sua indubbia importanza.
Facendomi come al solito peso dell'inerzia altrui, tocca allora a me festeggiare degnamente il settantesimo compleanno - genetliaco non gli si addice, tanto quanto il lutto si addice a Elettra - di uno degli eroi della mia infanzia e gioventù: Renato Pozzetto in persona.
Più che un augurio, la mia è una laudatio, di Renato, e del tempori acti, come direbbero i latini, e dunque come tale Vi chiedo cortesemente di prenderla, risparmiandomi la vostre solite rampogne circa la mia attitudine a confondere lucciole per lanterne, arte per artigianato, e quant'altro.
Dunque, siamo qui oggi a scrivere di Renato Pozzetto, del suo stile, e del suo riso, della sua vocazione, del suo spleen.
Lo potevo fare ricorrendo a migliaia di aneddoti, anche personali, tratti dalla mia vita familiare e dall'affetto che proviamo in casa per lui: mia madre per esempio mi chiedeva sempre di trovare la cassetta di "Tango Diverso", da "La Patata Bollente", ma non era in vendita; un mio amico, purtroppo morto diversi anni fa, si vantava di averlo conosciuto, e sfoggiava, negli anni delle scuole elementari, una foto con lui e con Ornella Muti, fatta ad una fiera campionaria di Milano.
Potevo farlo ricorrendo a decine e decine di film, ricordando la magia di "Mia moglie è una strega" ('80) (magic/moments....investiamo sulla "Canistracci Oil"), "La casa stregata" ('81) (e l'alano napoletano), "Mani di fata" ('83) (Eleonora Giorgi al massimo, e la famigliola in Lancia Prisma), "Ecco noi per esempio" ('77) (Palmambrogio vs "Milano odia"), per non dire del Gandhi e dei suoi viaggi tra CCCP e Olanda, del tassinaro che rapito dai fratelli di Rosalia, dell'armatore che si prostituisce, del ragazzo di campagna e del fratello strano, del sassofonista, di Paolo Barca o, ancora, del commissario del giallo napoletano.
Preferisco tuttavia farlo parlandoVi di quello che, probabilmente, è, se non il suo miglior film, o quello più divertente, certo quello che meglio definisce Renato, e, forse, quello che è destinato ad essere il solco, la traccia, che Lui ha lasciato nel cinema italiano: "Sono fotogenico", di Dino Risi, anno di grazia 1980.
Il lungometraggio, detto sinteticamente e senza troppo dilungarmi, narra di Antonio, giovane sfaccendato che vive ancora con i genitori nella piccola località di Laveno, Lago Maggiore, e che, anziché lavorare o pensare a mettere su casa con una ragazza del posto, ad imitazione della sorella e del cognato (uno splendido Boldi, insolitamente sottotraccia), sogna di sfondare nel mondo del cinema a modo di Robert De Niro o Sylvester Stallone, lasciando la piccola e stanca cittadina di provincia per la grande accogliente Roma, Hollywood sul Tevere, Mecca del Cinema locale, in cui tutto ciò che non è possibile realizzare sul lago diventa, improvvisamente e quasi per magia, realizzabile, ampliando la possibilità di scelta, e, con essa, la qualità di vita.
Tutto il film si sviluppa raccontandoci del viaggio, di andata ed infine di ritorno, da Laveno a Roma, in cui Antonio sperimenta tutte le difficoltà della vita cittadina, la solitudine di una pensioncina divisa con estranei, la crudeltà di un mondo del cinema visto dall'interno, dove si è merce, carne per i progetti di faccendieri senza scrupoli, e dove il confine fra autorialità e pornografia è labile, gli stessi rapporti personali sono ondivaghi ed ambigui, tanto che l'amore può presentarsi nelle fattezze di una donna tanto splendida quanto irrisolta (Edwige Fenech nei suoi anni migliori; per quanto l'apparizione di Barbara Bouchet nei panni di sé stessa ammalii come sempre e più), che alla fine usa il nostro baldo giovane per i propri comodi, scaricandogli il peso della delusione, ma non solo, in un finale tanto cinico quanto amaro, di cui ovviamente non Vi dico.
La storia, in fin dei conti, è molto simile a quella di "Ecco noi per esempio", o de "Il ragazzo di campagna" ('84), dove il topolino di campagna vista e conosciuta la confusione della città, ripiega sulle sue scelte e ritorna a casa, con la variante per cui, in un film come questo, il nostòs non è sereno e risolto, ma lascia quella sottile malinconia delle cose rimaste a metà, uno specchio infranto in cui Antonio si rende conto di non essere né come il De Niro di Taxi Driver, né come lo Stallone di Rocky, ma una pallida imitazione del guerriero, fiaccato dalla vita e da eventi che non ha saputo controllare, di un'onda che non ha potuto cavalcare.
Ed ecco che il lago, spesso al centro della vita e dei film di Pozzetto, diventa non solo il luogo conchiuso in lasciarsi vivere alla Candìd, ma l'acqua profonda in cui specchiare i propri pensieri, i propri ricordi, la consapevolezza dei propri fallimenti e la necessità di andare avanti - profondo quasi come il mare delle Tremiti di Lucio Dalla, per il quale "il pensiero è come l'oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare" - una casa in cui l'uomo del riflusso, in uno degli anni più torbidi della nostra storia recente, a proprio modo uno spartiacque fra l'epoca delle rivoluzioni possibili e disattese ed i successi trenta, finisce quasi per implodere e, come cantava il Lolli di qualche anno prima e come tante volte mi piace ripetere, "disoccupa le strade dai sogni".
Tutto questo, e molto altro ancora, è "Sono fotogenico", film in cui Risi e Pozzetto giocano con il metacinema dissacrando un mondo, un ambiente ed un poco la loro stessa persona, quasi un "Effetto Notte" per palati meno fini, ma più affamati, del pubblico di Truffaut.
Auguri, dunque, Renato, e grazie di cuore.
Che le stardust memories rappresentate da "Sono Fotogenico" non ti siano di peso per i prossimi trent'anni, mentre con il mio cucchiaio di vetro scavo nella memoria della leggerezza che hai dato a me, e a tante altre persone, lasciandoci galleggiare sulla profondità delle acque che spesso ci reclamano, mentre sferriamo e prendiamo pugni come Rocky Balboa o Rocky Barbella.
Memoriosamente Tuo (ma anche Vostro)
Il_Paolo
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