Bissare un capolavoro è uno dei crucci maggiori di tutti i musicisti rock. C’è chi sceglie la strada del cambiamento, abituando la propria audience fin da subito al disequilibrio stilistico. C’è chi cavalca l’onda del successo, magari aggiungendo con pazienza nuovi tasselli alla propria proposta. “The Last In Line” segue sicuramente la seconda scuola di pensiero, nascendo teatralmente come un bis.

Primo tra gli elementi di novità è il tastierista Claude Schnell, il cui inserimento è qui udibile nel più classico “Ronnie Dio pensiero”: archi e gingle tastieristici dosati cum grano salis, giusto per dare orecchiabilità a bridges e ritornelli. I tempi (per fortuna) non sono ancora maturi per la svolta melodica che seguirà col successivo “Sacred Heart” (1985). Le chitarre regalano soli in progressione di gran classe: la vena compositiva di Viv Campbell non si è ancora esaurita, anche se, quanto ad idee, “Holy Diver” resta ineguagliato per qualità e quantità. Ecco perché (i detrattori) attribuiscono il successo di quell’album alla circostanza che molto materiale fu clandestinamente trafugato dagli “Sweet Savage”, la band da cui fu pescato il chitarrista irlandese. Se si sia trattato solo di alcuni riff o di veri e propri pezzi incompleti non lo sapremo mai, probabile è che qualche spunto sia in effetti confluito nel primo lavoro solista di Ronnie Dio.

“The Last In Line” comunque, è la riprova che la band non diede alle stampe un capolavoro grazie all’opportunismo. Dunque brani ancora aggressivi, tempi serrati ed incalzanti, coadiuvati dagli artigli della Les Paul di Campbell. Ancor prima che sulle hits, mi permetto di soffermarmi sui pezzi meno noti. L’hard‘n’heavy dei riff di “Brethless”, che viaggia sulle aggressive sonorità delle strofe, cui dà appunto respiro il mid-tempo dei bridges. “Eat Your Heart Out”, irruenta e malefica, eccezion fatta per i soli, potrebbe tranquillamente essere inserita in “Angry Machines” (1996). In “Mistery” già si ode il sound tastieroso che verrà, tuttavia non dispiace, perché inserita come episodio nel giusto contesto. I pezzi più famosi (“We Rock”, “The Chains Are On” e la titletrack) sono le colonne sonore dell’adolescenza del sottoscritto, quindi non mi è possibile valutarle con serenità.
Comunque rock assolutamente d’alta scuola. Non posso omettere neppure quella cavalcata che porta il nome di “Evil Eyes”, grande song dalle adrenaliniche partiture chitarristiche. Ciò detto, ricordo l’incontestabile messa agli atti delle qualità canore del piccolo grande Ronald Padavona. Considerando anche la moda dell’epoca (tutto il pezzo un’ottava sopra dall’inizio alla fine), mai si avvale a pieno di quel falsetto che tanti finti virtuosi mascherano oggi ad arte, spesso solo per mistificare le proprie scarse qualità di vocalist.

“The Last In Line”, nel suo genere, è un altro caposaldo imprescindibile. L’unica nota storta se vogliamo è quella di essere a tratti simile al suo predecessore.

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