Bentrovati a tutti/e nella sezione interiori! Trattiamo oggi, grazie alla lettura di un instant book di buon successo commerciale, una tematica che incrocia vicende dell'Italia "minore" con tematiche più generali e, direi, complesse: alludo, come ben visibile dalla copertina qui a fianco, alla storia di (don) Sante Sguotti, ed alla connessa problematica del celibato dei preti, caposaldo della dottrina ufficiale della Chiesa e del diritto canonico stesso.
Il libro di don Sguotti - adesso dovremmo chiamarlo semplicemente signor Sguotti, a dirla tutta, per quanto il sacramento della consacrazione, mi dicono, sia inestinguibile - ci descrive in maniera semplice, spontanea e schietta il travaglio interiore di un prete dell'area padovana che, quasi emulo di un limitrofo personaggio di Goffredo Parise, o versione locale del padre Ralph di "Uccelli di Rovo", scopre l'amore per una parrocchiana, spingendosi fino ad amarla in senso biblico (qui, con riferimento al Canto dei Cantici, direi, più che ad altre pagine dell'Antico Testamento e della successiva patristica!), noncurante del fatto che la Bibbia è un testo complesso, e varie le sue interpretazioni possibili: con l'ovvia e quasi scontata conseguenza che, nato il frutto dell'amore fra prete e parrocchiana, venuta contemporaneamente alla luce la verità, l'Istituzione Ecclesiastica non ha potuto che applicare le proprie regole, ed allontanare don Sguotti dal proprio soglio, nonostante le proteste e la solidarietà di alcuni dei propri fedeli.
Il testo, breve e quasi un pamphlet, si legge con rapidità e gusto, non avendo ambizioni letterarie, ma la semplice urgenza espressiva di chi vuol dar voce alla propria protesta, alla propria condizione di uomo di fede che a stento si riconosce nelle Istituzioni e nella loro durezza, come pure nel carattere, severo ed implacabile, di regole concepite in maniera forse astratta, fredda, lontane dall'esperienza quotidiana e dalla complessa sfumatura dei sentimenti dell'individuo: il che, a ben pensarci, ripropone in un contesto cattolico l'antico ed archetipico dissidio di cui trattò magistralmente Sofocle nell'Antigone, ovvero il contrasto, irresolubile e per questo tragico nel senso proprio, fra leggi dello Stato (qui della Chiesa, intesa anche come ordinamento) e le leggi del cuore, alle quali pure rispondono, in parte, le Scritture. Dissidio che, a dire il vero, pure Gesù di Nazareth ebbe modo di trattare, allorquando si interrogò sul Sabato, evidenziando come non fosse "l'Uomo per il Sabato, ma il Sabato per l'Uomo". Per quanto il Medesimo disse - cito sempre a memoria - anche di "dare a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quel che è di Dio", con tutti i problemi correlati all'applicazione di un simile dictum se si tiene conto che, rispetto alle proprie leggi, il Papa può ben assimilarsi a Cesare in quanto Sovrano del proprio ordinamento. Problemi vertiginosi, questi, che nessuno in realtà ha saputo risolvere, togliendomi la responsabilità di risolverli con e per Voi.
Lasciando dunque da parte le implicazioni giusfilosofiche, canonistiche e religiose delle tematiche che questo apparentemente innocuo libretto solleva nel lettore più pronto a cogliere il tormento di chi scrive (o dei suoi editors), osservo come, al dunque, il libro evidenzi il travaglio interiore di chi, pur condividendo in astratto il carattere militante della missione ecclesiastica, tale da imporre, per un bene maggiore, il sacrificio della libertà sentimentale e della realizzazione anche carnale dei propri impulsi, fatichi ad accettare un simile tormento se messo di fronte a vicende concrete che scuotono le proprie certezze: con connessa difficoltà di ricomporre l'anima scissa di chi, da un lato, non vorrebbe rinunciare alla propria vocazione, e, dall'altro, riesce difficile accettare la rinuncia ad un affetto concreto, ad un'esperienza di vita che potrebbe arricchire il proprio bagaglio culturale e religioso. Dissidio che trova la sua sintesi nel titolo, evocativo, del libro stesso.
Personalmente, non so nemmeno se ammettendo, in via ipotetica, che anche i parrocci possano tenere famiglia, o relazioni non clandestine ed alla luce del Sole, si risolverebbe un problema senza aprirne altri: perché la concretezza ed i problemi della vita famigliare, le relazioni che, a propria volta, i membri di una famiglia possono intessere con una comunità religiosa o sociale (pensate alla moglie e ai figli/e del parrocco) renderebbero non meno complesso il quadro, e non meno vertiginosi i problemi che una simile situazione potrebbe creare, distogliendo il parroco dalla sua missione, o mettendo in dubbio la stessa efficacia pratica del suo magistero (ad es. in cui la figlia del parrocco si incapricci di un giovane scapestrato del paese, o il figlio vada a convivere more uxorio mettendo al mondo altre creature, o, ancora, la moglie decidesse di separarsi e scappare con un altro). Problemi, questi, ben noti nel mondo protestante, sicché la comparazione ci insegna che, eliminando un problema, se ne aprono molti altri, talora imprevisti.
Alla fine di tutto, ci resta il bel volto di Don Sguotti, sincero nel suo interrogarsi sulla sua vita precedente, sulla sua nuova vita, e sulla scommessa di Vita eterna in cui il nostro, naufrago in un Italia "minore" ma non "innocua", ancora crede, passando dal pulpito di una Chiesa di campagna a quello, più vasto, di questo libro e di qualche comparsata televisiva.
Interrogativamente Vostro
Il_Paolo
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