Quando si dice avere brutte sensazioni: potrebbe sembrare una stupidaggine, anzi, lo è, ma già da prima di ascoltarlo questo album mi lasciava perplesso, copertina brutta, titolo anonimo e ruffianotto; oltretutto "Beat Cafè" è datato 2004, lo stesso anno in cui Gordon Lightfoot pubblicò il suo ultimo ed assai sbiadito album, "Harmony": non c'è nessun legame tra questi due artisti se non il fatto di essere discograficamente coetanei ed il grande affetto che mi lega ad entrambi. Pur nella sua mediocrità comunque quello era un album quantomeno dignitoso, "Beat Cafè", almeno per quanto mi riguarda, invece è stato un poderoso ceffone, ancora più cocente perché inaspettato; con tutte le diffidenze e le perplessità più o meno fondate che si possono avere non avrei mai, mai immaginato che Donovan potesse produrre un album di questo tipo.

L'eccellente "Sutras" di otto anni prima, manco a dirlo, non aveva ridestato la benché minima attenzione intorno al nome di Donovan, quindi il sodalizio con Rick Rubin si interrompe e l'artista scozzese ritorna nel limbo: si succedono negli anni alcune pubblicazioni minori: un paio di dischi live, un album per bambini, "Pied Piper" (2002) composto in larga parte da canzoni già edite in "For Little Ones" ed "HMS Donovan" e un demo risalente al 1964, poi nel 2004 il "grande" ritorno: "Beat Cafè": ad affiancarlo ci sono due veterani di lunghissimo corso come il batterista Jim Keltner e l'amico ed ex membro dei Pentangle Danny Thompson al basso. Nonostante questo "Beat Cafè" è un album pessimo, bolso, evitabile, insensato, per farla breve usando un raffinato francesismo, fa veramente schifo. Fa veramente schifo perché qui non c'è niente, ma proprio niente di quel variopinto e raffinato arcobaleno sonoro che da sempre, nelle più disparate forme ha costituito la magia di Donovan: "Beat Cafè" non è folk, non è rock, non è pop, è semplicemente il delirio di un artista che, alla soglia dei sessant'anni, vuole giocare ad essere qualcun altro che non è mai stato.

L'iniziale "Love Floats", che per inciso è una delle due canzoni salvabili di questo album, è assai eloquente: il pezzo è infarcito di bizzarri vocalizzi sussurrati che sembrano quasi voler scimmiottare "Barabajagal (Love Is Hot)", il basso di Danny Thompson è in bella evidenza, così come per tutto il disco, eppure questa forzosa sensualità non funziona assolutamente: la canzone è abbastanza orecchiabile ed accattivante, ma sentire un Donovan privo delle brillantezza dei suoi anni migliori che biascica con tono sexy credendosi forse l'alter ego di Brian Ferry lascia decisamente interdetti ed imbarazzati ed infatti, chiusa questa passabile parentesi "Beat Cafè" si rivela per quello che è veramente: un calvario. "Yin My Yang" è l'altro "highlight" dell'album, e ricalca le medesime coordinate dell'opener però in maniera più sobria e convincente, risultando un pezzo piacevole, anche se a parte batteria e basso è musicalmente nullo, ed è appunto questo stile minimale a non convincere assolutamente: "Beat Cafè" è impalpabile e povero di idee, le rimanenti dieci canzoni sono un estenuante susseguirsi di nenie insipide, degne forse di una compilation relax da supermercato: "Poorman's Sunshine", "Whirwind", mosce ed ammoscianti nonostante l'assurda pretesa di risultare sensuali, lo swing di terza mano di "Beat Cafè", il blues rock qualunquista di "Lord Of The Universe", "The Cuckoo", un brano tradizionale che, se interpretato dal Donovan di trent'anni prima e non da questa bislacca caricatura sarebbe anche potuto risultare accattivante. Oltre ad essere di una pochezza irritante "Beat Cafè" sconcerta anche per il cantato impostato e teatrale ai limiti del ridicolo di Donovan, assolutamente opposto alla spontaneità che l'aveva sempre contraddistinto; nella ritmata "The Question" i suoi vocalizzi nonsense raggiungono livelli di bruttezza e pacchianeria inauditi, addirittura in "Lover O Lover", brano ripescato senza un motivo plausibile da "Love Is Only Feeling" dei 1981 sembra addirittura di sentire i rantoli di Darth Vader e non sto scherzando; questo pezzo, se non fosse di una pesantezza narcolettica inaudita sarebbe quasi comico, una comicità che si trasforma in puro imbarazzo in "Two Lovers", descrivibile come uno sproloquio di frasi fatte new-age declamate con piglio da gatto morto sullo sfondo di una qualunque musica da Buddha-bar.

Una stella. Gravemente insufficiente, questo è il giudizio finale su "Beat Cafè": dopo la raffinatezza poetica dei testi di "Sutras" questa improvvisa esplosione di sensualità bislacca e fuori tempo massimo suona ancora più inappropriata e inspiegabile. Questo album, mattone indigesto ed indisponente sarebbe fastidioso anche come sottofondo di una seduta di massaggi termali, ed il dramma è che il massimo target a cui "Beat Cafè" può ambire è proprio quello: da qualunque angolatura lo si giudichi, musicale, testuale, stilistica, questo disco è una scatola vuota, anzi, piena di aria fritta, noia e presunzione, in cui Donovan appare posticcio ed inespressivo come nel ritratto in copertina.

Elenco e tracce

01   Love Floats (04:18)

02   Poorman's Sunshine (04:02)

03   Beat Cafe (04:14)

04   Yin My Yang (03:35)

05   Whirlwind (04:46)

06   Two Lovers (03:42)

07   The Question (03:06)

08   Lord of the Universe (04:47)

09   Lover O Lover (04:56)

10   The Cuckoo (03:49)

11   Do Not Go Gentle (04:27)

12   Shambhala (05:28)

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