Mi svegliai presto martedì scorso. Sveglia alle cinque. Due panini, una bottiglia d’acqua, zaino in spalla e via. La breve notte appena passata era stata piuttosto impegnativa, mentalmente parlando: un vortice di emozioni ed immagini mentali aveva pervaso prepotentemente la quasi totalità dei miei pensieri notturni. Troppo difficile dormire tranquillamente era stato dal momento che, il giorno dopo, sarei andato a vedere almeno cinque dei miei idoli adolescenziali. Per ordine sparso, Phil Anselmo, Rex Brown, James Hetfield, Kirk Hammett e Lars Ulrich: individui che, al di là della stima per alcuni minore che provo attualmente, soprattutto per quest’ultimo, sono stampati indelebilmente nei miei ricordi, musicali e non.
Arriviamo alle dieci in quel di Bologna. La frenesia di vedere i suddetti individui mi permette di sopportare, usando un’iperbole, “quasi volentieri” le sei ore di fila sotto il sole, i fieri racconti di qualche metallaro stereotipato (addirittura uno si è filmato mentre bestemmiava in chiesa, porka minkia!), i venditori ambulanti di acqua e birra e, per finire, simpaticoni con una simpatica croce celtica tatuata sul collo. Poi alle quattro di quel soleggiante pomeriggio aprono i cancelli. Mi godo in meritato riposo la performance dei The Sword. E’ il tipico gruppo dal sound inconfondibilmente texano: riff che sono il connubio tra Pantera e Eyehategod, a sprazzi furia hardcore e discreta padronanza tecnica che però non è supportata degnamente dalla performance del cantante, appena udibile per il volume troppo alto delle chitarre, le cui linee erano inoltre troppo dure e basse di tonalità per il timbro del vocalist, tale J.D. Cronise.
Altra mezz’ora di pausa e si fa di nuovo ritorno nella bolgia. I Down fanno capolino sul palco dell’Arena Parco Nord. Prestazione ineccepibile. Un Phil Anselmo immenso, statuario a livello di presenza scenica e straordinariamente coinvolgente, non solo per i suoi classici “goddamn” e “fucking” ma anche per la voglia con cui scherza con il pubblico, da un “you misspelled, you dicks” a un gruppetto di ortograficamente ingenui ragazzotti che aveva innalzato uno striscione recante la scritta “Metalica Rulez” a quando, nel salutare, si toglie la maglietta e fa vedere alla sterminata folla il suo celebre tatuaggio rappresentante la parola “Unscarred”: Tamarraggine (con la T maiuscola) pura. Un basso, quello di Rex Brown, che è più un fucile che un basso; si sente quasi come la chitarra di Pepper Keenan ed ogni sua plettrata provoca un rimbombo nella mia cassa toracica: devastante. Forse i suoni, come quelli dei The Sword, non erano proprio consoni al loro stile mentre la scaletta ha accontentato davvero tutti, classici come “Bury Me in the Smoke” si sono alternati a pezzi tratti dal lavoro più recente, “Down III: Over the Under”, come “Three Suns & One Star”. Dopo aver visto due quarti dei Pantera, potevo già sentirmi soddisfatto ma il piatto più gustoso venne servito per ultimo.
Un’ora scarsa di intermezzo e poi, via, attacca “The Ecstasy of Gold” ed è il tripudio. La fresca ed energica prestazione dei “four horsemen” spazza via i miei dubbi sulla loro integrità a livello di prestazione live. James Hetfield dialoga col pubblico come ai vecchi tempi (“We can’t speak italian. You don’t speak english but tonight we all speak the language of Metallica…”), incita periodicamente il numeroso pubblico (trentamila i paganti) con i suoi caratteristici “yeah!”, è ancora totalmente padrone del palco e della sua mitica Explorer bianca e la sua voce regge, inaspettatamente, tutte le canzoni dello show (una quindicina, circa, in totale) brillantemente. Kirk Hammett esegue magistralmente ogni suo assolo ed evita così le sue proverbiali sbavature. Lars Ulrich si conferma “pippa” del batterismo mondiale con la rullata iniziale di “Whiplash” sbagliata clamorosamente ma mi bastano le sue smorfie sul maxischermo (enorme, la produzione è stata veramente sontuosa) per ricordare di quando guardavo stupefatto il “Live Shit” all’età di quindici anni. I Metallica eseguono un repertorio molto vasto, infilando nella scaletta dai grandi classici, alle sfuriate di “Kill’em All”, alle ballate “da accendino” come “Fade to Black” e “Nothing Else Matters”, a un pezzo di “Load” come “Bleeding Me” e a brani, come “Motorbreath” e “Ride The Lightning” non proprio aspettati. Ogni “yeah!” e ogni brano cantato da trentamila persone, ogni spinta ed ogni goccia di sudore diventeranno miei tatuaggi mentali.
Ritornai ripensando al concerto, ai Metallica, gruppo tra i più universali (dite pure commerciali o venduti…) degli ultimi venti anni. All’Arena Parco Nord quel giorno c’erano coppiette cinquantenni, down (non il gruppo), bambini di dodici anni accompagnati dai papà, tutti accomunati da una t-shirt raffigurante il logo della celebre band che ha superato l’etichetta di “metallari”, raggiungendo l’hall of fame generale. E questo è un merito a mio parere. Il pubblico più unito ma allo stesso tempo variegato che abbia mai visto.
Appagato come non mai.
P.S.: Scusatemi le anafore e/o le eventuali ripetizioni. Non volevo fare retorica per un resoconto live, per di più come questo dal forte significato emotivo per il recensore. Buona lettura.
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