Boh, insomma, io ero bambino, i ricordi si confondono.

Però, al sabato pomeriggio, allora, si vedeva Tv Koper Capodistria.

E c'era quel tizio, che faceva le telecronache, con un accento strano. E che diceva delle cose strane.

E il tutto, le telecronache, le partite, erano una finestra su un mondo vicino e lontanissimo.

C'erano queste squadre, e questi nomi, che non si capiva un cavolo. E le magliette, le scarpe, tutto ciò che negli anni a venire sarebbe diventato oggetto di marketing, anche in quegli anni lì si vedeva che in quel posto erano diverse, più povere, più brutte.

C'è una cosa che non mi dimenticherò mai.

In quegli anni lì ancora capitava, anche da noi, che uno schiacciava e il tabellone andava in mille pezzi.

E una volta succede. Un sabato pomeriggio, su Koper Capodistria.

E quando capitava da noi, qua in Italia, la gara era a chi riusciva a beccare la foto del momento in cui si rompeva. O il filmato.

Lì no. Il cronista incazzato nero. Dice non si può. Non è possibile. Uno che rompe un tabellone è uno che fa il cretino. Non dovrebbe giocare mai più. E così per mezz'ora, perché mica lo cambiavano subito, bisognava aspettare il vetraio, magari veniva da Belgrado, robe così.

E poi, come cavolo giocavano?

Di qua, da noi, c'erano gli americani. Stile, tecnica, eleganza.

Di là solo slavi, non ancora serbi o croati o macedoni.

Eleganza zero. Ma zero, proprio. Schemi? Niente. Dammi la palla tiro.

Anzi, mi ricordo, con mio fratello, che ci si diceva: come si fa a riconoscere se uno è jugoslavo?

Risposta, facile: gli leghi le mani dietro la schiena, lo chiudi nello spogliatoio, gli dai un pallone da basket in mano. Se tira è jugoslavo.

Se segna è Drazen Petrovic.

Perché in tutto quel mondo, in quello stranissimo, lontanissimo e vicinissimo mondo, senza eleganza, senza schemi, senza niente, c'era una cosa che non potevi non notare.

Una testa di cavolo di proporzioni galattiche. Uno che - per partito preso - giocava solo per sé stesso.

Che gli altri, tutti gli altri, gli davano fastidio. Erano come un fastidioso aperitivo prima di un pranzo da re. E il pranzo era lui.

Uno che, quando segnava, in trasferta, faceva ben capire al pubblico che aveva capito che non lo sopportavano. E per questo lui era così contento. E tutto ciò una trentina di volte a partita.

Uno che - se c'era lui - allora non stavi a vedere la partita per guardare le magliette, o sentire lo strano accento di quello lì che commenta, o a sperare che si rompa un tabellone e il colpevole venga fucilato sul campo.

No, stavi a guardare questa maledetta testa di cavolo, solo questa maledetta testa di cavolo, che se non se ne fosse andato, oggi compirebbe cinquant'anni.



Carico i commenti...  con calma