Potrei iniziare questa recensione ingolfandomi fin da subito con termini arzigogolati e competenti. Potrei esprimere pensieri arguti, razionali, cerebrali, spirituali, poetici per fare bella figura; oppure no: potrei esprimere battute beffarde, blasfeme, irriverenti, impertinenti, tanto per “scioccare”…
Ma non ne ho voglia.

Forse potrei raccontare che questa band è composta da quattro fanciulle - o da quattro “fighe”, a dipendenza dal punto di vista di chi legge. Già dal primo ascolto potrei dare un alto punteggio per il trascinante rigore ritmico e l’elegante attitudine musicale di queste ladies di Brighton, che si producono con batteria, chitarre, basso, farfisa, sassofono, tromba, corno, banjo, violoncello, piano, organo, harmonium... Oppure potrei descrivere minuziosamente le note, le melodie, le disarmonie di questo disco, ibridando il tutto in un’improbabile talea, magari da interrare nel terreno grasso dell’indie-pop-art-wave contemporaneo. Poi potrei descrivere il sorprendente furore orgiastico quando la tastierista, Verity, brutalizza il suo pianoforte, e nel mentre le altre tre, Emma, Mia e Ros, si lanciano in un avvampante baccanale con i loro rispettivi strumenti. Potrei addirittura osare di più, affermando che la voce di Verity ha una femminilità piuttosto virile, suono di donna sfuggente, ma con palle dure come noci di cocco. Inoltre, tanto per mettere la ciliegina sulla torta, potrei annunciare a gran voce che alla regia c'è Steve Albini, maestro di cerimonie sfacciatamente a suo agio, tra selvatici picchi punk ed hardfolk, e ardenti, vellutate sonorità noise-freak.

Potrei a questo punto affermare che di questo disco m’intriga la nervosa ed agile energia elettrica, e il suono impagabile, tinteggiato a fresco da pennellature gotiche. Potrei citare pomposamente nomi inflazionati come Velvet Underground, Sonic Youth, e magari Patti Smith, e già che ci sono tirerei fuori addirittura la tziganeria di Goran Bregovic, e l’indie folk degli Arcade Fire. Pensando ai brani potrei constatare che la doppietta “Eight Steps + Gone Draker” è una delle partiture strumentali più lancinanti e dinamiche sentite negli ultimi anni, e che “Those Pocket Are People” si ostina a farmi venire in mente le chitarre dure e pure di Daydream Nation. Inoltre potrei chiedermi che ne pensa Leonard Cohen della frenetica e scompigliata rilettura di “The Partisan”… ma in definitiva, chissenefrega di quello che potrebbe pensarne lui… oh, questa versione mi conquista, e ciò mi basta.
Per concludere potrei dichiarare con assoluta sicurezza che Axes deluderà chi già conosce i dischi precedenti, ma non me, che scopro le Electrelane per la prima volta.

Potrei, potrei, potrei dire questo e quant’altro ancora… Non lo faccio. E' che sono un po' stanca, ma in un modo o nell'altro volevo dirvelo: questo disco mi piace.
Potrebbe piacere anche a voi.

Carico i commenti... con calma