Dopo il grande successo ottenuto con l’LP "Face The Music", la Electric Light Orchestra (ELO per gli amici e per noi d’ora in poi) non si concede un solo attimo di pausa, sciorinando l’ennesimo album di successo: "A New World Record".

Anche stavolta, il buon vecchio Jeff Lynne decide di percorrere la strada del rock-pop sinfonico, strizzando comunque l’occhio al rockabilly anni 50, al melò e, addirittura, all’operetta. Nonostante ci troviamo di fronte ad un album multiforme, e quindi più variegato rispetto al predecessore, l’ascoltatore si ritrova tra le mani, purtroppo, un lavoro meno ispirato e avvincente rispetto alla media della band, e l’appiattimento verso il pop rock è sempre più netto; se in Face The Music avevamo qualche pallida traccia del passato progressive della band, in questo lavoro questi rimasugli sono ormai svaniti del tutto.

In pieno ELO-style, le canzoni sono tutte abbastanza orecchiabili, il problema è sempre lo stesso: Jeff e soci osano poco, producendo, da quest’album in poi, la solita solfa. Nonostante l’intro a-là Eldorado (il loro lavoro più riuscito probabilmente) presente in "Tightrope", troviamo le solite canzonette, tra cui Telephone Line, una specie di surrogato di Waterfall, tratta dal disco precedente, Mission (A World Record), un carico di note al miele, Livin’Thing, il solito singolo scala classifiche senza infamia e senza lode, e canzoni decisamente più vive come So Fine, la rockeggiante, ma dannatamente ridondante, Do Ya, e la buonissima Rockaria!, che esordisce con un canto lirico, per poi sfociare in uno scatenato pezzo in pieno stile rockabilly, diventando uno dei pezzi più famosi della band. Evitando l’inutile Above The Clouds siamo arrivati in dirittura d’arrivo, l’album è in pratica finito, e ci troviamo di fronte ad un prodotto nettamente al di sotto delle attese… ma proprio quando credevate che quest’album sarebbe sprofondato nel baratro della mediocrità, c’è il salvataggio, in gergo calcistico, in zona Cesarini.

Shangri-La, la nuova Eldorado di Jeff.

Se in Eldorado c’è l’allontanamento voluto dalle proprie fantasie, in Shangri-La, luogo immaginario creato dalla visionaria penna di James Hilton, che rappresenta la felicità e la tranquillità, c’è la perdita di un paradiso di cui non c’è dato sapere se è una perdita realmente vissuta, o se si tratta dell’ennesima fantasia, demolita dalla nuda e cruda realtà (questo, ovviamente, sempre nell’ambito della canzone stessa). In ogni caso Jeff ci mostra veri e propri sprazzi di genio: la musica ha un vago sound orientale, rilassante, mentre il testo è sin dall’inizio marcatamente malinconico; lo stesso Jeff compara l’allontanamento della sua Shangri-La al “fade-out” dei Beatles in Hey Jude, e chi ha avuto la buona idea di ascoltare la canzone con attenzione (ma soprattutto, in modalità stereofonica con un bel paio di cuffie), dal secondo ritornello in poi il suono del cosiddetto “lato destro” comincia ad offuscarsi sempre di più, pronunciando in un senso quasi “fisico”, a livello musicale, l’allontanamento dalla Shangri-La… un autentico colpo di genio. Proprio quando la canzone sembra arrivare stanca alla conclusione, ecco l'inaspettato colpo di grazia; l’atmosfera cambia completamente e l’ascoltatore viene trasportato nei due minuti finali, i quali ricordano vagamente il motivetto sentito ad inizio album, con una drammaticità notevolmente accentuata, con il disperato canto di Jeff che, tra lo straziante e il lirico, ci canta la seguente strofa:

“I will return… to Shangri-La”

La speranza è strozzata in gola dalla disperazione, portandoci lentamente verso la fine di un album salvato dalla mediocrità proprio dalla canzone finale, con l’intercalare del finale che non ti aspetti.

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