Molto più emblematico e significativo di quanto il suo valore artistico e i contenuti espressi possano far pensare: "Breaking Hearts" del 1984, diciottesimo album in studio di Reginald Kenneth Dwight: nei quattro dischi precedenti il Nostro aveva trovato una relativa tranquillità artistica e prosperità creativa, attestandosi su un pop di ottima fattura e riuscendo a comporre dei piccoli capolavori purtroppo poco riconosciuti come "Sartorial Eloquence", "Just Like Belgium", "All Quiet On The Western Front" o "One More Arrow" per citarne alcuni, nei due successivi crollerà di schianto; schiacciato dai suoi vizi e incapace di ritrovare lo stile e l'ispirazione che l'avevano reso unico, con "Nikita" come unica canzone degna di nota, e il tormentato "Breaking Hearts", che sta proprio in mezzo a questi due periodi è l'album di transizione per eccellenza nella carriera di EJ: 10 canzoni che si susseguono senza un apparente filo logico, divise tra la più totale inconsistenza e futilità e l'innato talento di un genio della musica pop ancora capace di colpire nel segno prima della crisi più nera del suo percorso artistico.

Di certo il primo approccio con "Breaking Hearts" è di quelli che colpiscono, ma non certo in positivo: "Restless" e "Who Wears These Shoes", sbiaditi easy-rock dal retrogusto funky senza né capo né coda, canzoni di plastica insomma, che non riescono a trasmettere un bel niente, e anche pezzi più energici come "Slow Down Georgie", "Lil' Frigerator" e "Did He Shoot Her?" non convincono appieno, risultando poco più che una copia patinata, anonima e priva di mordente del lato più rock di EJ, che nella decade precedente riusciva ad esprimersi a ben altri livelli, ma "Breaking Hearts", come ho già detto, non è solo l'album della povertà e della scanzonata mestizia della canzoni sopraccitate; Elton John è ancora capace di inventare qualcosa di originale e piacevole, come l'indolente, solare e velatamente ironico incedere calypso di "Passengers", di cui fu girato un divertente videoclip e la conclusiva "Sad Songs (Says So Much)", unico esempio in tutto il disco in cui coretti e sintetizzatori riescono a fare da contorno ad una canzone realmente catchy e divertente; niente di eccezionale ma decisamente superiore alla media di questo controverso album, ed è soprattutto nelle ballate, dove non cerca di suonare forzatamente allegro e a'la page, che il Nostro riesce a dare il meglio di se, come dimostrano la soffusa e vagamente melodrammatica titletrack "Breaking Hearts (Ain't What It Used To Be)" e soprattutto "In Neon", ballad elegante e piacevole dal sapore agrodolce, autoironico e spiccatamente autobiografico, in cui EJ si concede il lusso di citare se stesso rispolverando l'attacco di "Roy Rogers"; attestandosi così su ottimi livelli che non verranno più toccati nei successivi quattro anni, e sparando così le sue ultime frecce prima del collasso.

E così "Breaking Hearts", questo album che non rientra neppure tra i migliori venti composti da Elton John, privo di un'identità precisa e per metà da stroncare senza appello si rivela invece un episodio unico nella discografia del Nostro, che non si era mai mostrato così Dr. Jekyll e Mr. Hyde in un solo disco, ma dopotutto questo è l'album di transizione per eccellenza, l'album di un artista "on the razor's edge", sull'orlo del precipizio ed è proprio questa peculiarità a conferisce a "Breaking Hearts" un valore e un motivo per essere ricordato, anche se in termini sicuramente più storici che non musicali e artistici.  

Carico i commenti...  con calma