Se dovessi scegliere un album musicale da portare con me nell'aldilà, o magari nell'aldiquà, in una di quelle vacanze noiose e afose, o anche in una di quelle più divertenti e impavide, sceglierei un album di Elton, perché il primo amore, anche musicale, non si scorda mai. E quale tra i tanti del baronetto inglese? Uno di quelli che fu composto quando la star delle piano ballads e dei pezzi pop/rock con influenze glam non era ancora una star vera e propria, tanto meno un baronetto. Prenderei quindi quella copertina cucita di blue jeans, e la consumerei con infiniti ascolti, sempre più ispirato da un musicista sempre più ispirante. Correva l'anno di "Stairway to Heaven" dei Led, l'anno in cui Bowie scopriva vita su Marte, o almeno lo sospettava, l'anno degli eco dei Pink, e della dea di Los Angeles, "LA Woman", con la fine dei Doors. Ma in questa magia si aggiungevano anche i jeans più irriverenti della musica, senza troppa vergogna cinque spudorate pietre rotolanti lavoravano con il più famoso pseudo-fotografo della storia, Andy Wahrol. È curioso notare come, nel 1971, si siano unite più stelle in un'armonica e a dir poco preziosissima costellazione, per regalare un altro capolavoro, proprio di Elton, al secolo Reginald Dwight, con "Madman Across the Wather" pubblicato in in quel freddo novembre. Anche qui torna il jeans, indubbia passione delle genti da almeno un lustro, effettivamente da quando si scoprì l'alchimia perfetta tra stile, comodità, e risparmio. Prosegue la linea di omaggi agli Usa, alla California in particolare, dopo essere passati dal deserto caldo e arido del Nevada, magari dell'Arizona e, perché no, anche dello Utah. "Tumbleweed Connection" dell'anno precedente era stato un capolavoro poco commerciale, ma irripetibile. Madman riprende il nome proprio da un brano elaborato durante le sessions di questo, che sarà poi aggiunto in una versione ancora più country da otto minuti e mezzo (addirittura più mistificante, se possibile), ideale per il contesto. L'arrivo in California però è narrato nel canto ad una musa ispiratrice, la fidanzata di Bernie all'epoca, a quanto pare. Sarà proprio lei la ballerina/sarta di un certa band, dai blue jeans, LA lady. Nella dedica più bella e virtuosa che un duo compositivo come Elton/Bernie potesse scrivere, ci stringe a lei, magari all'imbrunire, illuminati dalle luci dei lampioni, dei boulevard, e delle cadillac in autostrada. L'anima più profonda della capitale della musica anni '70, perfetta. Si prosegue con una intro da vero pianista accademico, o anche solo appassionato di musica leggera. Un certo Levon è il protagonista del secondo racconto del Madman, qui in una ballad malinconica dove il ritornello un po' ridondante, e perché no, anche noiosetto, lascia nell'ascoltatore un fascino d'altri tempi, segnato dalla nostalgia che graffia la limpida voce della star. A coprire pesantemente questa e il piano tuttavia ci sono gli archi e i fiati di Paul Buckmaster, già collaboratore per i precedenti due lavori. L'orchestra però non rovina, anzi aumenta il pathos che si crea per la traccia successiva, raggiungendo qui un ottimo compromesso. Arrangiamenti meno invadenti, più ponderati e tarati. La presentazione del folle attraverso l'acqua, ovvero la title-track, si collega con toni mistici e sognanti anche alla successiva opera. L'uomo folle, dopo essersi rivelato tra un accordo di piano e l'altro, canta di un certo Razor Face, dall'ignota identità. Dopotutto a Bernie piaceva essere enigmatico, a confondere e lasciare nel dubbio anche sé stesso. Le grandi distese dell'America però si rendon ben visibili solo dalla traccia successiva, con il più struggente dei racconti degli indiani delle steppe e delle enormi praterie. Una civiltà al tramonto, in estinzione, narrata in un brano commovente, vario, alternativo, e che dire, ancora una volta perfetto. L'artista con questo lavoro vuole fare il salto di qualità, make the grade, e ci riesce, bastano le prime due tracce per farlo capire, basta la copertina, l'orchestra di Paul, basta il suo piano ben equilibrato, ma leggermente dissonante, mai quanto l'honky piano dell'album successivo. Ma come se tutto ciò non fosse già grande di suo, Elton continua a cantare dell'America, lo fa in un pezzo autobiografico, "Holiday Inn", che con una nota sarcastica mai mal voluta, ci trascina in tour con lui, e ci trasforma in roadies. Una volta che l'aereo atterra, la band scende, così come lo staff, si ritrova però smarrita, ancora una volta in una zona arida e calda, quasi afosa, non quanto quelle cantate in Tumbleweed. In "Rotten Peaches" abbiamo un inno alla vita, alla musica, un pianista che si diverte, sempre però con quel tono di melodrammaticità che lo caratterizza. Uno dei momenti musicalmente più alti. A chiudere un album eterno ci pensano "All the Nasties" e "Goodbye", le due tracce meno famose, amate e forse anche meno volute, ma che tornano perfettamente nel quadro del pianista di ballads emotive e personali. La prima delle due è un flashback nel passato, anche qui si nota il riscatto di un'infanzia agonizzata, particolarmente vicina e nota all'artista. La conclusione vera e propria è poi un brano semplice, the end, come chiudevano i fab four solo un paio d'anni prima. "Goodbye" è il classico sonetto al piano che ci si aspetterebbe posto a chiudi-fila di un'opera così compatta, e allora veniamo accontentati, con un pezzo di grande qualità, ancora una volta forti emozioni e compattezza, ma anche semplicità e umiltà, senza troppi eccessi, neanche uno in effetti, per chiudere coerentemente un circolo iniziato circa 45 minuti prima. Il cantante si scusa di averci rubato tempo, lo fa in pochi minuti, lascia il palco a testa china, lui, che per questo Madman meriterebbe una standing ovation dal 1971 sino ad oggi, e che continui ancora. Goodbye Elton della passione più autentica dell'America, dell'album dai toni blu, dell'album dalle 9 perle cobalto, lascerai il posto alla popstar, o meglio alla glamstar che sarai di lì a poco, senza però perdere il tuo genio musicale, almeno per un altro po'.
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