I film più interessanti, di solito, necessitano di due o tre visioni, variamente approfondite, per essere gustati e compresi appieno, sia sotto il profilo formale che sotto quello contenutistico.

Raramente ciò capita per i gialli o per i thriller, in cui l'individuazione dell'assassino, o il colpo di scena finale che dir si voglia, risolve l'arcano, strappa il sipario dietro il quale si celano misteri ed enigmi, riappacificando lo spettatore con la propria anima razionale e con la voglia di sicurezza tipica di chi si diletta in misteri ed avventure, di carta e celluloide.

"Dont'look now" ('73), distribuito in Italia con il titolo grottesco che leggete qui sopra, è uno di quei rari film del mistero che vanno rivisti svariate volte per comprenderne, forse senza esaurirli del tutto, i vari significati che si celano dietro la storia narrata, facendosi suggestionare da colori, musiche, ambientazione, montaggio, recitazione, riferimenti quasi subliminali che l'ottimo regista Nicolas Roeg (n. 1928) dissemina in una cupa Venezia invernale.

Tratto da una novella di Daphne du Maurier (cara a Hitchkock) il film descrive le peripezie di un restauratore inglese (Donald Sutherland), che, persa la figlioletta in maniera tragica, si reca a Venezia per seguire la ristrutturazione di una vecchia e malmessa chiesa, assieme alla giovane e fragile moglie (Julie Christie).

Nella città veneta i due inglesi continuano a rivivere il dramma della perdita della figlia - annegata in un'acqua continuamente rammentata dai canali e dalla laguna - venendo a contatto con personaggi strani ed indecifrabili: una medium cieca e la di lei sorella, che annunciano foschi presagi per la coppia, un ambiguo vescovo che sembra nascondere qualcosa, un albergatore dalle frequentazioni equivoche ed un commissario alle prese con misteriosi omicidi, apparentemente insolubili. La situazione è complicata dalle continue apparizioni di una bambina dal vestito rosso, simile a quello della figlia morta: chi è e cosa vuole la piccola creatura? La risposta a tutti i quesiti, psicologici ed esistenziali, in un finale raggelante.

Il film può leggersi a più livelli: come l'attrazione di un uomo del nord Europa per la bellezza decadente della città lagunare, sulla scia di tanta letteratura e, soprattutto, del Mann di "Morte a Venezia", dove i fantasmi del passato e le angosce, mortifere, del presente sembrano mescolarsi in un unico piano narrativo; come la storia della difficile elaborazione di un lutto, che colpisce i familiari superstiti nel tempo, più ancora del dramma immediato della perdita; come una fiaba nera dove il mondo reale e quello rappresentato dalla mente del protagonista risultano fittamente e drammaticamente intrecciati, svelando un rapporto intimo che dapprima sembra privo di un senso, che risulta, infine, concreto e tangibile; come un giallo dal finale beffardo, ed antitetico rispetto a tanto cinema di genere, per ragioni che ovviamente non voglio chiarire.

Il gran merito di Roeg è quello di tenere ben legati tutti i fili del discorso, in una rappresentazione che, anche grazie alle belle prove degli attori impegnati, risulta strutturalmente coesa, grazie al ricorrere, non solo simbolico, ma anche narrativo, del colore rosso (shocking, anche nel senso di scioccante), che appare ora in un pallone, ora in un accappatoio, ora in un capo steso al vento, infine in un abitino per bambina e nel sangue in cui si conclude la vicenda, guidando quasi l'improvvido spettatore in una discesa agli inferi di cui si conoscono le premesse, ma si ignora, fino ai minuti finali del film, la conclusione, ed, in ultimo, la ragione.

Concludo osservando come questo lavoro, paradossalmente non troppo conosciuto nell'Italia in cui fu girato (anche con attori nostrani), benché assai considerato nel resto del mondo, sia stato il modello di altri film di genere, da noi acclamati, come "La casa dalle finestre che ridono" di Avati ('76), affine per atmosfera e ribaltamento di senso finale, e vari film di Argento, fra cui, per il simbolismo del colore che porta la morte, "Profondo Rosso" ('75) ed un'altra opera successiva di cui non vi voglio dire il titolo, per non spiegarvi troppo le somiglianze tra i film.

In sintesi, un film da vedere, immancabile per gli appassionati del genere ed altamente consigliato per chi crede in un cinema del brivido senza effetti speciali e senza continui assalti ai nervi dello spettatore, che procede lento, in un lento stringersi di un cappio al collo di chi guarda, o di chi cerca di capire il senso ultimo delle cose. Che forse sarebbe meglio ignorare.

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