Da settimane si parla soprattutto di Saltburn, secondo film di Emerald Fennell.
Quel che salta subito agli occhi, una volta terminata la visione lunga 130 minuti, è come Saltburn non sia un film comune, bensì uno di quei film che impongono riflessioni su quanto si è visto, non tanto per la complessità della trama (molto chiara), quanto piuttosto per la ricchezza di stimoli e suggestioni, di sensazioni anche opposte all'interno della stessa opera. A tutti gli effetti, Saltuburn è un film prezioso e affascinante proprio per questo, per il suo essere inevitabilmente divisivo e quindi ancor più interessante.
Pur con dovute proporzioni, è quel tipo di sensazione propria dei film di autori molto più estremi e scomodi come von Trier, Aronofsky, Lanthimos.
E anche Saltuburn è un film che ammalia e sconcerta. Incanta grazie a uno stile sublime e tecnicamente eccelso, che riporta indietro nel tempo all'ormai drammaticamente non più vicino 2006, eppure senza dare l'impressione di spostarsi in un momento diverso da quello del nostro presente. Perché quel di cui parla Saltburn concerne dinamiche ricorrenti e proprie di tutti i tempi. Dinamiche legate alla tensione di classe che, da Parasite in poi, sono tornate attualissime anche al cinema, senza mai essere venute meno nel mondo al di fuori dallo schermo, ovviamente.
La parabola luciferina di Saltburn - e del suo grande protagonista Oliver, dell'eccezionale Barry Keoghan - si sviluppa in modo differente però rispetto ai recenti film (tra cui anche la Palma d'oro Triangle of sadness) succeduti al premio Oscar 2020, e parte fin dalla scuola, con una narrazione molto azzeccata e intelligente da parte dell'autrice e regista Fennell: l'edificazione dell'intera struttura sociale, infatti, con relative disuguaglianze, da lì nasce, prende forma e si radica nella mente. I rapporti di potere, invidia e rivalità che covano interiormente incendiando l'anima desiderosa di scalata e rivalsa partendo dal basso.
E da quel periodo così inafferrabile, misterioso e sospeso che è l'adolescenza.
La parte più bella e riuscita del film è infatti quella iniziale e oxfordiana, per quanto mi riguarda.
Vedere il mondo dal basso, piuttosto che dall'alto (didascalica in tal senso la stessa scelta degli attori protagonisti e della rispettiva differenza di statura fisica), offre la possibilità di una prospettiva differente, nemmeno necessariamente peggiore, di come portarsi dapprima alla pari, per poi infine soppiantare chi faceva vanto e sfoggio di una condizione di privilegio non ottenuta per particolari meriti, se non la fortuna dell'albero genealogico e dell'eredità.
Usando lo strumento dell'intelligenza per sopperire a quanto la gerarchia sociale ha determinato.
E, oltre all'intelligenza, è lo strumento del corpo e del sesso lo straordinario catalizzatore di potere capace di sovvertire gli equilibri.
Presi singolarmente, gli elementi presenti in Saltburn non sono originali, chiaramente; anche perché, come detto, fanno riferimento al dinamiche eterne e quindi già sviscerate molte volte dall'arte.
Il mosaico che, però, viene presentato in questo film è oscuro e disturbante quanto basta. Impossibile provare empatia per nessuno dei personaggi coinvolti nella macabra rappresentazione di un mondo visto, scrutato, osservato dalla finestra, dall'alto o da lontano, facendo germogliare lentamente i desideri di conquista e distruzione. Ma anche le frustrazioni, i rancori, i pensieri che si agitano nell'inquietudine.
Il voyeurismo infatti è una componente non secondaria in Saltburn, ed è anzi centrale nell'impianto teorico del lavoro.
Fa impressione il finale, in quanto mostra il termine di un lungo e vittorioso piano che porta a una felice solitudine nel godere della sudata conquista. Una conquista fine a se stessa, si direbbe. Eppure Oliver celebra la sua soddisfazione, non prova dolore nel vivere totalmente solo in un immenso castello.
Il mondo rappresentato in Saltburn, pur tra momenti discutibili e alcune cadute di stile, è difatti un mondo privo di valori e pertanto sarebbe fuorviante parlare di un film ideologico. Saltburn è tutt'altro.
Un film dall'enorme impatto estetico e visivo, ricco di simboli ma che non mostra una compiuta maturità autoriale da parte della regista e sceneggiatrice di Una donna promettente.
Nel computo definitivo, comunque, sono gli aspetti positivi a prevalere su quelli più sgradevoli, imperfetti e controversi.
L'esposizione di ricchezza e riti, bugie e meschinità ha, nella lussuosa ed erotica cornice in quattro terzi di Saltburn, qualcosa di incandescente e impossibile da ignorare. Si può amare, disprezzare, ma non si può ignorare.
E questa è, come accennavo inizialmente, la più grande dote di questo film e il motivo per cui, al netto di tutti gli attuali limiti, Emerald Fennell è un'autrice che merita di essere tenuta d'occhio.
Carico i commenti... con calma