Iniziava ad essere particolarmente grottesca l’Italia alle porte degli anni ottanta. Quella che ci è stata raccontata dai nonni o dai romanzi dei (supremi) vari Silone, Alvaro, Levi era scaduta approssimativamente nel 1950. Nevrotica e compulsiva, malata di sapere spicciolo e di abitudine era la penisola, alle porte dell’ultimo “ventennio” novecentesco, che ha determinato gli assetti del mondo conosciuto della storia antica. Una genuinità all’ultimo stadio che m’è venuta in mente sfogliando l’album di famiglia. Eravamo così, antesignani dei noi stessi di oggi. L’americanizzazione del paese stava per entrare nel suo vivo e l’imbambolamento general generico era partito già da allora. Così inermi davanti all’avanzare di un progresso che in Italia, a seconda di come la si vuol vedere, s’era fermato anni ? decenni ? secoli ? prima.

Come eravamo?

A prescindere dai gusti personali, il film di Verdone inquadra bene tre psico-tipi italici dell’epoca che conoscerete benissimo. Ma di quel film non m’interessava tanto l’intreccio delle tre vicende quanto un altro livello di racconto. Più profondo e sotteso sebbene emerso a livello audio in maniera praticamente perfetta. Ennio Morricone è stato, come sempre, un grande nel ricreare gli oggetti e gli ambienti in cui quell’Italia era calata. Luoghi musicali che fanno diventare ridondante il girato. Il tamarrazzo germanese che valica il Brennero, il romano giustamente lontano dalla sua città, il capitolino che invece riporta a casa un pezzo di Roma utilizzano l’automobile. Non importa se station wagon, sportiva o utilitaria. Utilizzano l’automobile. Le tracce “Bianco rosso e verdone” o “Autostrada” con le variazioni dei temi sono l’automobile e quello che succede dentro. Una costruzione di partitura che materializza il girato.

Provate ad ascoltarle senza vedere le scene, quando avete un attimo di tranquillità. Quell’attacco strozzato con l’inno di Mameli è il sedile del guidatore, deformato dal marchio del culo di chi, quando si mette alla guida, sente che quel pezzo di fabbricato di Mirafiori è una protesi del suo corpo e del suo essere. Atmosfera vagamente onirica basata su una melodia che ricorda il Brasile dei 60. Sonnacchiose marce da pennica per i più pesanti, che mandano in sovra pensiero i paranoici. Possono far dormire alla guida, o accecare chi va dritto. Ma riescono magicamente ad accompagnare gli italiani a casa in autostrada, mentre pensano ai mille cazzi da risolvere. Nessuno saprà come è arrivato sano (o meno) e salvo (o meno) a casa, ma intanto sono lì.

Sembra di scendere un gradino sociale quando si ascoltano invece la “Marcetta popolare” o “Un povero emigrante” (sempre con le variazioni del tema), ingenue composizione con richiami all’inno nazionale squagliato. Chi guida felice e baldanzoso, probabilmente è inconsapevole di essere una rotella del sistema paese che poteva perdersi. Di certo fa pensare che l’ingranaggio, in assenza di un singolo pezzo, non si sarebbe fermato e avrebbe eliminato il danno, schifandolo. Però, lancia in resta e zaino in spalla, tutti a schiena tesa sul sedile a 90° del posto guidatore, mentre parenti, amici e oggetti possono tranquillamente giocare, cantare, discutere o riposare  lungo le arterie che trasportano un’umanità ancora per poco no global, in giro per il territorio a dare linfa alle urne elettorali. Che potevano benissimo essere altro.

Astraendo i brani dal contesto filmico e applicandoli ad altre eventuali fette di vita, il discorso non cambia. Morricone è in grado di raccontare l’italianità sbadata di quegli anni con suoni che si addicono a grandi categorie sociali e situazionali, coprendo la vasta gamma di incoscienze e incostanze dell’epoca. I “Temi d’amore” che ripercorrono da cima a fondo la colonna sonora, sono dolci e mai screanzati, rimarcando la passionalità e l’ars amandi peninsulare. A partire dall’uomo che vuole dominare ma conquista con sguardi e dolci parole, pronto a fare di tutto a letto. Ma anche dalla donna che deve estorcere il sesso al bigotto. Avvolgenti materassi di violini in piuma d’oca cullano il desiderio e la passione ancora legati al “Cappello delle 23” e danno un senso di composto erotismo. Tipico di un paese estremamente controllato nei costumi dalla Chiesa, ma voglioso di aprirsi, iniziando dalla camicetta per eliminare via via tutto il vestiario. Senza foga, ma con fare un po’ burlesque.

Morricone racconta con le note la fine della dolce vita e l’inizio sommesso di un’epoca mortale. Nostalgia e amarezza del viaggiatore, che solo alla fine scopre chi è e di cosa soffre, oggi non potrebbero fermarsi davanti a tutte le griglie e caselle che ci vengono imposte. Autovelox a tradimento, limiti a sorpresa, multe salate sono il conto che paga la gente che dentro di sé sa bene che la vita è un attimo pieno di anni buttati o spesi bene, in un posto che qualcuno si ostina a chiamare Bel Paese.

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