Non riusciva a dormire, aveva in testa un fischio, una voce lontana che non capiva da dove venisse, e non sapeva cosa dicesse. Si alzò dal letto e, scostata la tenda, si affacciò fuori: stava albeggiando, c'era un flebile venticello che faceva raschiare i rami in fiore del suo pesco contro il vetro della sua finestra, ma il cielo pareva sgombro. Sarebbe stata una buona giornata d'inzizio primavera.

Ad un tratto sentì un'urgenza di dover camminare: si infilò la tuta, le scarpe, un giacchettino, e via. JD scese gli scalini di casa sua, attraversò il cortile e si incamminò per il viale deserto: non c'era ancora nessuno in giro eppure si percepiva la vita all'interno delel case, oltre le mura, oltre le persiane abbassate. Da una finestra una luce accesa illuminava flebilmente un giardino: proveniva da un salotto, c'era un babbo dentro, con in braccio il suo figlioletto appena nato, lo stava cullando mentre gli stava dando il biberon, e pareva gli stesse cantando qualcosa, forse una filastrocca. JD non lo sentiva ma lo vedeva, vedeva i suoi occhi, il suo viso disteso nonostante la levataccia, ne percepiva la pace, e l'amore. Passo dopo passo arrivò in fondo al viale, e il sole già cominciava a farsi sentire: non credeva di aver camminato così tanto, il viale sembrava così lungo... Non aveva con sé l'orologio quindi non sapeva che ore fossero, ma a giudicare dall'animosità della strada sembrava che di colpo tutti si fossero svegliati, si fossero vestiti in fretta e furia e si fossero buttati a capofitto sulle loro attività consuete. Avrebbe dovuto tornarsene a casa e andare anche lui a lavoro, ma in fondo pensò che no, oggi lo voleva dedicare a se stesso, oggi voleva camminare.

Cominciava a fare molto caldo, come se d'improvviso anche il sole avesse avuto fretta di lavorare, di compiere i suoi soliti, annuali, corsi: più che d'inizio primavera sembrava adesso essere a inizio estate. Si voltò verso casa sua: non sembrava così distante, eppure sentiva di aver camminato tanto... Guardò il pesco: i fiori erano stati sostituiti da bellissimi frutti, che risaltavano alla luce del sole. Strano, pensò, ma continuò lo stesso a camminare. Per la strada i bambini giocavano, in costume da bagno, e anche lui fu costretto a togliersi via via giacchetto e il sopra della tuta; incrociò il furgone coi gelati, intravide il suo vicino a spasso col cane, in infradito e cannottiera, e dopo un po' raggiunse il parco del suo quartiere: pieno di gente che giocava, cantava, correva e festeggiava. JD li guardò e sorrise: non capiva cosa stessero celebrando ma non importava, l'atmosfera era piacevole, per cui si appoggiò un attimo alla staccionata e li osservò.

Una folata di vento freddo lo colpì alle spalle: si voltò e vide con stupore il viale pieno di pozzanghere, come in seguito a un temporale; anche gli alberi avevano perso i loro bei frutti, anche il sole pareva essere più lontano, un po' più triste. La luce che spargeva sulle case, sull'erba, sul viale, era arancione, ma non riscaldava, era solo fortemente nostalgica. Si rigirò verso il parco: tutte quelle persone erano sparite, sostituite da coppiette che passeggiavano mano nella mano, pestando un tappeto scricchiolante di foglie secche. Alzò lo sguardo, la sua attenzione fu richiamata da uno stormo di uccelli che volavano sopra la sua testa, diretti chissà dove. C'era una velata tristezza nell'aria, nonostante gli abbracci delle coppiette, nonostante l'odore di fumo proveniente da chissà quale giardino (probabilmente qualcuno stava bruciando dei rami secchi), nonostante il piacevole scricchiolio delle foglie sotto i suoi piedi. Cominciò a fare freddo, fu per cui costretto a rimettersi il giacchetto e anzi, a tirarsi su il cappuccio, che, nella fretta, gli calò sugli occhi. Nel giro di un secondo, giusto il tempo di rimettersi a posto il cappuccio, il viale era di nuovo mutato.

Era buio adesso, non c'era più nessuno in giro: l'unico movimento che riuscì a percepire fu quello (stranissimo a dirsi!) della neve, che stava cominciando a cadere da un cielo scuro e completamente velato. JD sentì freddo, decise di affrettare il passo e di rincasare: di nuovo quell'urgenza con la quale si era svegliato la mattina, stavolta però molto meno positiva e serena, lo spingeva a tornare a letto il prima possibile, quasi come se qualcosa di brutto stesse per accadergli. Fece giusto in tempo a buttare veloci sguardi alle finestre illuminate a giorno, dietro le quali si muovevano figure agitate con indosso grossi maglioni e in mano pacchi di ogni tipo. Il tragitto verso casa fu inspiegabilmente più corto dell'andata, e in pochi passi raggiunse di nuovo il suo pesco, ormai ridotto a uno scheletro: lo guardò, con un filo di tristezza, si scrollò dalle scarpe la neve, e rientrò in casa: l'indomani si sarebbe svegliato un po' più triste, e inspiegabilmente più vecchio (un po' come quel vecchio marinaio di quella vecchia storia che aveva letto la sera prima).

Capita alle volte di incappare in dischi che, con la loro ciclicità, con i loro quasi programmati cambi di umore e di atmosfere, ti fanno pensare al corso di una vita, al passare delle stagioni, al trascorrere dei giorni. "Insomniac Doze" è uno di questi, un album in cui si alternano, pezzo dopo pezzo, umori e odori, e in cui i giapponesi Envy sono stati magistralmente in grado di trasmettere la loro serena malinconia e la loro tacita rabbia.

Non molto distante da altre loro opere, ma allo stesso modo un viaggio visionario, una grande tela che l'ascoltatore contribuisce a dipingere, con i suoi colori e le sue immagini, ascolto dopo ascolto.

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