Dal momento che quei gnurantou dei discografici s’ostinano a non pubblicare l’opera omnia in studio di Enzo Jannacci, ci si trova costretti a consolarsi come si può. Ad esempio, benedicendo la Svizzera che, evidentemente priva delle briglie legali che legano altri e soprattutto noi, pubblica e ripubblica, sbattendosene meravigliosamente, una serie di concerti/perle dei grandi cantautori e cantanti italiani registrati là da loro durante i tanto vituperati anni ottanta. Opera importantissima per molti motivi. Innanzitutto poiché evidentemente l’opinione dei discografici, e quella degli stessi artisti, conta come il due di picche a briscola quando il gioco è fiori, dal momento che questi concerti sono registrati e pubblicati “senza rete”, così come sono stati registrati, con una bella dose di errori, di stonature, di sviste e, conseguentemente, con una marea di perle.
Nel “live” di Lucio Dalla, ad esempio, si trova “Lugano”, splendida gemma, canzone/alter ego di “Milano”, non pubblicata (chissà perché…?) sul meraviglioso “Lucio Dalla” (quello de “L’anno che verrà”, “Anna e Marco”, “Cosa sarà”, e, per l’appunto, “Milano”). Cose che probabilmente gli autori, gli editori e i discografici avrebbero impedito, se solo avessero potuto, e se solo si fosse stati in quel capolavoro di elefante burocratico che è il nostro povero Paese.
Comunque, in soldoni, grazie Svizzera per questi cd e dvd (sono pubblicati entrambi). Venedo all’immenso Jannacci, ovvero uno dei cantautori più bravi e più sottovalutati del nostro panorama nazionale, questo disco è, naturalmente, bellissimo. Siamo a cavallo tra il vecchio Jannacci e quello che tra molte virgolette potremmo definire “nuovo”, ovvero tra quello di “Vincenzina” e quello insensatamente sanremese di “Son scioppà” o di “Se me lo dicevi prima”, anche se qui il ricordo del primissimo e impareggiato periodo è ancora fortissimo.
E allora ecco un medley che vale il disco, con “Vincenzina e la fabbrica”, “Io e te”, “Mario”, “Vengo anch’io, no tu no” ed “El portava i scarp del tennis” eseguiti senza soluzione di continuità e solo voce e piano. Un momento altissimo e commovente, che finisce splendidamente in vacca, come solo l’autore è capace di farla finire.
Poi le perle si sprecano. Ricordi delle bellissime collaborazioni con Cochi & Renato, ovvero “Silvano” e “E la vita, la vita”, oppure degli echi contiani di “Bartali”. L’orchestra, di cui non viene dato alcun dettaglio nel disco, tira bene anche se tra qualche ingenuità e un bel po’ di suoni datati.
Lui è esorbitante come solo lui sa essere. O lo si adora o, probabilmente, non lo si sopporta. Ma, tant’è, è stato ed è un genio della nostra canzone, e oserei dire di un certo tipo di nostro teatro/cabaret, anch’esso così svilito e banalizzato negli ultimi anni.
Ascoltare Jannacci, per un ragazzo di oggi, rischia di essere un’impresa titanica. Perché bisogna amare le sue fonti, o almeno conoscerle. Perché bisogna avere il concetto del più puro “non sense”, quello che giusto Cochi & Renato portarono (spesso a sei mani proprio con Lui), nella televisione italiana quando era (o forse sembrava) meno evoluta di oggi… Perché bisogna amare tanto il jazz quanto il cantautorato più puro e malinconico. Perché bisogna accettare un personaggio che un minuto prima riesce a farti commuovere e un minuto dopo si lascia prendere dalla più pura e consapevole “stupidera”.
Perché… insomma… perché ci vuole orecchio e bisogna avere il pacco.
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