Alla fine i prati sono tornati. Sulle montagne, sulle trincee, su mozziconi di filo spinato, sulle basse tombe dei morti abbandonati e dimenticati lassù.

Più che un film di guerra, è un documentario sulla guerra. Su cos'era l'attesa, il freddo, il silenzio, la morte. Ci sono poche urla, pochi spari, poche esplosioni, poco sangue. La guerra striscia come gli uomini nella neve, si espande nell'animo dei soldati, piove dal cielo come i fiocchi spettrali della tormenta e avvampa di un fuoco mortale per poi ammutolirsi subito. Quella guerra fu la notte dell'Occidente, fu il cantiere dove furono demolite le speranze, i sogni, le illusioni e le vite del nostro vecchissimo mondo.

La vicenda si snoda proprio di notte, nell'arco di poche ore, nell'oscurità argentata della montagna innevata e illuminata dalla Luna. Le fredde, grandiose immagini delle vette innevate, la poesia dei larici che si perdono nel buio luminoso, la purezza di tutto questo stride con la miserevole cicatrice provocata dall'uomo, con la pericolante trincea che è casa, riparo ma al tempo stesso prigione e maledizione, e che è in ogni caso inesorabilmente condannata alla distruzione.

Siamo sull'altipiano di Asiago, forse nell'inverno del 1917, anche se l'allusione alle rarissime licenze e il drammatico stordimento e alienazione dei soldati sembrano collocare la vicenda prima di Caporetto e della conseguente riorganizzazione dell'esercito. Ci sono comunque chiari riferimenti che danno un'idea spietata e drammatica della guerra sul fronte italiano, tra inverni lunghissimi, combattimenti e baraccamenti in luoghi inaccessibili, l'orrore totale della lotta con le mine.

Quello che in realtà conta è che siamo di fronte alla Prima Guerra Mondiale. Potrebbe essere una trincea qualsiasi di un fronte qualsiasi, facce qualunque in una delle innumerevoli, interminabili notti di veglia e di terrore.

La paura di un nemico che si mostra solo con qualche urlo nell'oscurità e con l'acciaio delle sue artiglierie fa da sfondo a una galleria di personaggi grigi, minimali, abbruttiti e senza speranza. Non c'è una vera trama, solo un'intensa, sorda e lenta discesa nell'anima della guerra stessa, in cui le barbe e gli occhi allucinati rendono i volti tutti uguali. Quadri sparsi di quattro anni d'inferno, ricordi di sofferenza e morte.

La figura fugace del maggiore proveniente dal comando di divisione serve solo a farci ricordare cos'erano gli ordini assurdi, cos'era la disciplina, serve a offrirci un vago e incompleto quadro generale. Non è, quella che Olmi ci mostra, la guerra di ordini, direttive e manovre. E' la notte insonne e infame dei soldati, è una storia che non ha un inizio e nemmeno una fine. Perché gli uomini che scrivono le loro lettere guardandoci dritto in faccia non ci vogliono raccontare nessuna storia; sono loro, ci parlano dall'abisso del tempo, ci fanno balenare per un attimo tutte le loro miserie, ma non ci sanno dire come tutto è iniziato e nemmeno, sopratutto, come finirà.

Ancora dopo un secolo, capire davvero cosa fu la Prima Guerra Mondiale è complicato, quasi frustrante. E' difficile immaginare come fu possibile imbrigliare le risorse umane e materiali di un'Europa al culmine del suo splendore per gettarle in una fornace ardente di fango, shrapnels, carne maciullata, gas. E ancora più difficile è immaginare cosa doveva essere tutto questo per un povero ignorante contadino, mandato da chissà dove a farsi ammazzare come un cane bastardo. Con il suo tono piatto e asciutto e i ritmi angosciosamente lenti, “Torneranno i prati” cerca di mostrarcelo, di farci dare uno sconvolgente sguardo su quel conflitto sempre più dimenticato ma che in realtà fu il vero, grande trauma da cui nacquero tutte le miserie dell'Occidente.

Rimangono, di quei volti disperati, voci che appena sussurrano, stele di pietra sempre sorde e mute nella solitudine e nel silenzio. Un freddo ricordo che non basta a riscattare la vita e la morte di uomini vittime due volte. Della guerra e, almeno in Italia, di un memoria tronfia e patriottica che non si è raccolta nel cordoglio e nel rimorso, ma ha celebrato con enfasi dopata le gesta “eroiche” dei fantaccini falciati dalle bombe e dai gas. Loro forse lo sapevano già: torneranno i prati, e tutta questa sofferenza sarà dimenticata sotto il sole, la vita, sotto il peso degli anni terribili che seguiranno.

E' gretto e inutile chiedersi se fu giusto o sbagliato, è fuorviante chiedersi a cosa servì andarsi a scannare in mezzo al gelo, fra le montagne. Austriaci e italiani avranno sicuramente idee diverse, anche se ugualmente sofferte, su questo argomento, così come le hanno tedeschi e francesi, belgi e russi. Se ne può discutere, ma non credo siano questi gli interrogativi che Ermanno Olmi vuole suscitare.

Ognuno la veda come vuole. Quello che ho sentito io alla fine del film, mentre fissavo lo schermo nero, era la voce del soldato. Senza nome e senza divisa, mi diceva semplicemente una cosa: questi sono i giorni delle nostre morti. Se puoi, ricordali.


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