L'inverno giunge alle sue ultime ore, il sole torna a riempire il cielo facendo pregustare l'imminente primavera e in un'idiavolata settimana la gente si riversa nelle piazze liberando la fantasia in mille travestimenti, sovvertendo l'ordine sociale e talvolta anche quello morale: è comprensibile come il Carnevale, soprattutto quello italiano, abbia sempre esercitato sugli scrittori nordici (in particolare quelli provenienti dall'area protestante) un fascino irresistibile, capace a volte di trasformarsi in immedesimazione e sogno ad occhi aperti. I tedeschi la chiamano "Fernweh", che sarebbe poi il contrario della nostalgia, ovvero una voglia dirompente di essere altrove, viaggiando almeno con la mente così lontano da dare l'impressione di essere già arrivati alla meta tanto desiderata.

Non è un caso, quindi, se il più bel racconto sul Carnevale romano (e in genere uno dei più belli sul Carnevale in assoluto) ci sia giunto da una delle migliori voci che la Germania abbia mai generato, Ernest Theodor Amadeus Hoffmann, che in Italia non aveva mai messo piede in vita sua. Hoffmann aveva letteralmente divorato i resoconti di viaggio in Italia dei suoi contemporanei, in particolare quello famosissimo di Goethe, tanto da far proprie le esperienze narrate e da riuscire a descrivere poi una Roma agli inizi dell'Ottocento estremamente viva e reale, capace di coinvolgere pienamente il lettore in una delle più riuscite fantasmagorie dell'autore. Chi conosce l'opera del creatore dei "Notturni" e "Gli Elisir del Diavolo" sa che i suoi racconti sono splendidi labirinti, arzigogolati giochi di specchi dove nulla ha una forma stabile, cose e persone mostrano una doppia natura oscillando in continuazione fra due estremi (realtà e fantasia, uomo e automa, persona e personaggio...), così come i racconti stessi, persi fra schietto realismo e improvvisi slanci nel meraviglioso, dove il comico si tramuta improvvisamente in tragico e viceversa, dove alla luce del sole può serpeggiare l'ombra della paura più vera (ne sapeva qualcosa Poe, che non nascose mai l'ammirazione per lo scrittore tedesco). I racconti di Hoffmann si popolano così di "Doppelgänger" (veri e propri doppioni dei personaggi, che agiscono nella loro ombra), trame secondarie, storie che si intrecciano e si svelano a vicenda.

Il carnevale romano diventa, a questo proposito, uno sfondo incredibilmente prolifico per la fantasia di Hoffmann, ma anche il protagonista assoluto di una delle sue vicende più intricate e spiazzanti, vero e proprio piacevolissimo tour de force per la mente ("Coloro ai quali la Principessa Brambilla non fa girare la testa, non hanno per nulla una testa!" diceva a proposito Heinrich Heine), una storia impossibile da riassumere, ma che con il suo procedere riesce a tirare le numerose fila precedentemente tessute in una meravigliosa visione d'insieme. La vicenda della sartina Giacinta e del suo spasimante, l'attore Giglio Fava, si complica per il fascino esercitato da un misterioso e ricchissimo abito carnevalesco, la sua strana relazione con il passaggio a Roma di due principi esotici (l'assiro principe Cornelio e l'etiope principessa Brambilla) che appaiono e scompaiono dai barocchi palazzi della capitale in cortei enigmatici, su carri pieni di oggetti pazzeschi. Il principe e la principessa sembrano poi non essere altro che i protagonisti di una singolare leggenda da Mille e Una Notte (quella della fonte di Urdar) che scorre come un fiume sotterraneo per tutta lo svolgersi del breve romanzo, a cui si sommano repentine trasformazioni, apparizioni di personaggi tipici del carnevale italiano (da Arlecchino a Pantalone), ciascuno con la propria storia da narrare, ciascuno anche ritratto con amorevole e ammirevole realismo nel proprio contesto, con la propria personalità e le proprie passioni, vicende sinistre che sembrano sfumare come i peggiori incubi e rincorse senza fine nel turbinio del Carnevale, dove il solo calare la maschera sembra aprire un intero universo di significati. A muovere le fila di tutte le storie e di tutti i personaggi, come un burattinaio vagamente luciferino, è il ciarlatano Celionati, una delle figure più simpatiche ed inquietanti mai create da Hoffmann.

E quando alla fine del racconto si capisce la natura della fonte di Urdar, dove tutti si possono specchiare, comprendendo come la vita sia rappresentazione, si ha l'idea di aver camminato in tondo per tornare al punto di partenza, ma con una visuale del tutto diversa, come scoprire un nuovo mondo appena dietro l'angolo. Se l'espediente, poi, può sembrare banale, non ci si faccia ingannare: dopotutto, non potrebbe che trattarsi dell'ennesimo scherzo di Carnevale...

Carico i commenti...  con calma