Sotto la guida di un giovane Ettore Scola, con questo film Alberto Sordi tentava di fuoriuscire dai consolidati canoni della commedia all'italiana per mettere in scena una storia grottesca tratta dalla penna acuminata dello scrittore Friedrich Dürrenmatt.
"La più bella serata della mia vita" (1972) è infatti liberamente tratto dal racconto lungo - o romanzo breve - "La panne", fra le più interessanti opere dell'autore svizzero scomparso nel 1990.
Riassumo brevemente la trama del film e del racconto, avvertendo tuttavia il lettore che le due storie differiscono notevolmente per il finale: in ambedue i casi, esso determina un ribaltamento di senso dell'intera storia, ma le rispettive variazioni mutano sensibilmente il contenuto morale della vicenda. Un commerciante di mezza età si trova sperduto in un piccolo villaggio svizzero a causa della panne della sua auto. Trovato un meccanico, nell'attesa che l'auto venga riparata, l'uomo viene ospitato per una sera nella dimora di tre anziani del paese, che si dilettano, per gioco intellettuale, a mettere in scena dei processi ai grandi personaggi della storia. Quella sera, tuttavia, il finto processo avrà come principale imputato l'ospite di turno, la cui vita si mostrerà tutt'altro che specchiata. Il verdetto, e la sua esecuzione, saranno tuttavia sorprendenti.
Rispetto al racconto, il film di Scola e Sordi appare riuscito a metà. Vanno valutate positivamente la prova del regista, e l'ottima messa in scena, in cui emerge il contrasto fra il pacifico mondo alpino ed il dramma interiore del protagonista, fra la bellezza della realtà esterna e l'abisso del cuore umano. In tal senso, il film sembra precorrere le intuizioni del Dario Argento di "Phenomena" (1984), in cui gli splendidi paesaggi montani fanno da sfondo a orrori e delitti frutto della malvagità umana.
Sempre inappuntabile la recitazione di Sordi, che tuttavia mette in scena la trita maschera dell'italiano vile, doppiogiochista e privo di remore morali, discostandosi in ciò dal protagonista dell'originario racconto, uno svizzero apparentemente rispettoso dell'ordine costituito, delle regole civili e sociali e della morale corrente. Proprio la caratterizzazione dell'attore romano, fulcro attorno cui ruota l'intera narrazione filmica, finisce tuttavia per alterare il senso della storia e lo stesso finale della vicenda.
Senza scendere in eccessivi particolari, per non rovinare la visione del film e la lettura del racconto, osservo come in Dürrenmatt il processo a cui veniva sottoposto il protagonista fosse un mero artificio logico e ludico, un espediente per passare una serata diversa, senza la pretesa di giungere ad accertare le ipotetiche colpe dell'imputato. Nella prospettiva dell'autore svizzero, infatti, il processo è una farsa, non potendo rappresentare un "metodo" per raggiungere la verità, nella consapevolezza che essa non esiste, essendo impossibile separare il falso dal vero, il giusto dal malvagio. Sulla base di tali premesse, l'esecuzione del verdetto inflitto al protagonista risultava beffarda, inattesa, confermando a mio avviso l'insensatezza stessa dell'esistere.
Il film di Scola e Sordi ha, sotto tale profilo, dissimulati scopi moraleggianti, posto che il processo smaschera l'ipocrisia e doppiezza del ricco italiano, svela i consueti altarini del perbenismo borghese e di certo cattolicesimo di facciata, e si conclude con un verdetto atteso dallo spettatore, ancorché virtuale. In questa prospettiva, l'esecuzione della sentenza inflitta a Sordi, pur inattesa, sembra l'espressione di un ineluttabile destino, di una predestinazione del protagonista. La risata beffarda che conclude il film - fra le scene più inquietanti del cinema italiano - appare, in tal senso, come la resa dell'uomo al proprio destino, come il riconoscimento di una sconfitta.
Un finale tutto sommato pacificante, a differenza dell'allucinata conclusione del racconto di Dürrenmmatt, preferibile alla sua trasposizione filmica.
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