Ennesima rilettura, dopo eccezionali episodi (leggi Mournful Congregation, Thergothon, Saturnus) del Doom Metal in chiave Funeral.

E' tutto dire, note le caratteristiche non troppo accoglienti del genere: chitarre distorte e imperterrite sulla stessa falsariga per lunghissimi minuti, che sembrano dilatarsi e creare spazi in cui si insinua una voce opprimente nella sua potenza, nella sua profondità, nella sua ormai totale mancanza della scintilla di gioia che caratterizza i passaggi verso il Doom di artisti più propriamente Death o Black (Katatonia, Novembre, Agalloch); sprazzi melodici il cui compito non è affatto quello di spezzare la tensione creata dalle marmoree linee pesanti, ma di infondere una tristezza che facilmente sconfina nella depressione, di succhiar via ogni allegria ed ogni energia, rendendo immobili, come paralizzati, gli ascoltatori, che pure non possono fare a meno di restare all'ascolto, come morsi dai denti terrorizzanti ed estasianti di un vampiro.

Ma l'estremizzazione Funeral degli americani Evoken sembra venir fuori direttamente da un calderone infernale, in cui sono mescolate, in proporzioni varie, e non sempre facilmente definibili, miscredenza, nichilismo (inteso nel senso più proprio del termine, vale a dire mancanza pressoché totale di valori e obiettivi, un vuoto totale nell'essenza stessa della vita, come il titolo sembra già richiamare), gelo, angoscia, un pizzico o due di follia, e via dicendo.

Lontani dagli estremismi espressivi (o impressivi) di Xasthur, Leviathan o Nortt, le linee si intrecciano senza mai perdere di vista l'arabesco del quale tentano di riprendere le strade, i vortici, i sensi nascosti o forse solamente mai trovati: se la opener (la stessa title-track) mira ad ipnotizzare l'ascoltatore introducendolo nel mondo grigio e soffocante del Funereo attraverso la sua atmosfera massiccia e granitica, i cui 9 minuti sembrano scorrere distorcendo le coordinate temporali, "Mare Erythraeum" infonde quelle sensazioni su descritte attraverso un andamento agallochiano, di poche parole in una scarna linea melodica - stavolta tutt'altro che estrema -, il cui obiettivo ultimo è quello di comunicare intorpidimento, causato da un vago e quasi fastidioso senso di insensatezza.

Parte la sezione più "sporca" dell'album, con "Of Purest Absolution", in cui i ritmi dettati dalla batteria fan presto a rinforzare quella trasmissione quasi telepatica di malsano sentore cimiteriale. In effetti sembra esserci un vago eccesso di batteria, che nei primi minuti avvicina la traccia al Death; ma il conciso stacco melodico (quattro note limpide e fredde) prolungato per quasi un minuto e mezzo prepara al clou, un lentissimo incedere dello stesso giro, più complesso, che raggela immergendo in quel vuoto, in cui le carezze fanno davvero rabbrividire... Il growl si inserisce ancora più lento, più spasmodico, scivolando rapidamente in un nuovo connubio Morte-Angoscia, reso più freddo e triste dal nuovo elemento, fino a sfociare in qualche aspro spunto Black, più che degno di considerazione degno di nota. Il darkthroniano giro finale rispedisce invece alle caratteristiche più tipiche del genere a cui fecero capi mostri quali Mayhem, Katatonia, Catacomb.

Tocca a "Astray In Eternal Night", vero inno del genere: un altro monumentale affresco di oltre 8 minuti e mezzo, in cui gorgoglio melodico che sembra quasi ripercorrere le note volutamente atone di una campana, si alterna per un minuto e mezzo un growling a tratti sussurrato; si prosegue con la ormai ben conosciuta cadenza lenta ed estenuante, arricchita ed impreziosita da profondi passaggi, che creano scale ipnotiche, discendenti, ed ansiogene, ascendenti. Degno di nota anche il klimax finale, che riprende la "campana" iniziale, pur nascondendola in una nuova struttura che aggiunge un briciolo d'ansia in più.

Il dolore diventa rosso e quasi palpabile in "Descend The Lifeless Womb", maratona lungo un lineare riff che sprigiona sangue, costellata da rallentamenti e screams che rendono il tutto una insopportabile soluzione di acido in odio, di gelo in angoscia, un vero e proprio aborto della vita. Seppure non ricco di variazioni sul tema, il pezzo andrebbe sicuramente annoverato tra le perle sia del Funeral Doom che del Death.

Si apre con l'ennesimo inserto pseudo-melodico "Suffer A Martyrs Trial Procession At Dusk", una infinita teoria di santi non più tali, in cui il lamento di John Paradiso dissacra la totalità dell'Essere, fino al classicheggiante sgocciolare finale di note che si sovrappongono fino a costruire una penetrante quanto delicata struttura di supporto che non può non lasciare senza fiato, annegando in mare gelido - un gelo quasi materiale, di certo perenne - di angoscia, perdita, sconfitta, impotenza.

Chiude "Orogeny", una sintesi di alcuni degli spunti migliori del disco: nel complesso un pezzo abbastanza "confusionale", non particolarmente caratteristico, che ci lascia ammirare un'ultima, "breve" (6 minuti) volta, scream acidi e caustici, growl ruggenti ma quasi al rallentatore, giri se non struggenti, almeno rilevanti; il non seguire stavolta una linea precisa rende ancora più intollerabile l'insieme, una gravante miscela incendiaria che non riesce (o non vuole riuscire) a rischiarare il buio.

Elenco e tracce

01   A Caress of the Void (08:52)

02   Mare Erythraeum (07:19)

03   Of Purest Absolution (07:46)

04   Astray in Eternal Night (08:37)

05   Descend the Lifeless Womb (09:12)

06   Suffer a Martyr's Trial (Procession at Dusk) (13:46)

07   Orogeny (06:06)

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