Uh-oh! Ci fanno notare che questa recensione compare anche (tutta o in parte) su nakataimpastato.com

«S'io fossi foco, arderei lo mondo, / s'io fossi vento, io 'l tempesterei». Cecco Angiolieri, il primo «young angry man» della letteratura europea, iniziava cosi, sette secoli or sono, il suo sonetto più «terribile».

Nell'èra dei mistici, fra le fioriture leggiadre dei «dolce stil novo», il poeta senese scopriva il gusto acre dell'imprecazione come contravveleno al male di vivere; il lessico della rabbia come suggello alla disperazione; il ghigno dilatato fino alla volgarità come verifica dei tragico quotidiano.

Fabrizio De André, uno degli autentici «young angry men» della canzone contemporanea, ha recuperato la lezione di messer Cecco nella sua allucinante attualità. Andando bene al di là di certe definizioni di comodo, che fanno di Angiolieri un acido velleitario e un bestemmiatore da trivio, ha compreso a fondo la sconcertante «verità» dei poeta medievale, si è calato entro la drammatica accortezza della sua «protesta», oggi più che mai viva, parlante più che mai.

Ecco perché l'ipotesi di un incontro in spirito fra il cantore duecentesco e il cantastorie novecentesco non è soltanto suggestiva, è anche credibile. Ovvero il fatto che De André abbia rivestito di musica (un'ironica giava) i versi dei senese, non è casuale ma muove da motivazioni precise. E, quella fra Cecco e Fabrizio, un'occhiata d'intesa fra due autori distanti sette secoli l'uno dall'altro, eppure vicinissimi, quasi parenti.

Chi conosce Fabrizio attraverso le sue canzoni - la lunga storia di una ribellione - non faticherà ad accertarsene.

Basterà, a scoprire la natura e la consistenza di tale legame, ascoltare questo disco datato 1968 in cui De André ripropone, accanto al sonetto di Angiolieri, alcune fra le pagine più significative della sua produzione di ieri e di oggi. Fra queste ultime è importante rilevare due traduzioni da Brassens, un altro poeta  a cui il cantautore genovese è legato da particolari affinità di gusto, di scelte, di inclinazioni.

A ben guardare, direi che la protesta anzi la ribellione di Fabrizio nasce da un assoluto bisogno di fede, dalla ricerca di un qualcosa in cui credere che è testimonianza d'amore per, l'Uomo, fiducia nel suo divenire. E questa tensione costante a salvare il mondo poetico di Fabrizio dalle sabbie mobili dei nihilismo, a trattenerlo sull'orlo della negazione totale per impedirgli di precipitare. Per sconfortata che sia la sua visione del mondo, vi è sempre l'impulso ad andare avanti, a cercare ancora. Per distaccata e rinunciataria che possa sembrare la sua cronaca, è facile leggervi fra le righe un invito alla lotta, un ammonimento a prendere coscienza della realtà per imboccare altre strade.

Questo mi pare vogliano insegnarci i poveri eroi di Fabrizio, solitari campioni di un'umanità che brancola nel buio e cerca la luce, e troppo spesso, vittima dei proprio cammino, inciampa fra i sassi che costellano le vie dell'esistenza. Perché, a guardare in alto, si rischia di incespicare: come Marinella, che muore nel momento stesso in cui scopre l'amore; come Miché, omicida per il timore di perdere la sua ragazza, suicida per la disperazione di averla perduta; come il soldato de «La ballata dell'eroe», che «troppo lontano / si spinse a cercare / la verità»; come Piero, ucciso fra i papaveri dalla furia feroce della guerra, proprio mentre scopre nel grembo di quest'ultima il sapore di un'impensata fraternità: «E mentre andavi con l'anima in spalle / vedesti un uomo in fondo alla valle / che aveva il tuo stesso identico umore / ma la divisa di un altro colore » Eccoci così al tema dell'«homo homini lupus», l'aspetto più inquietante dei dissenso di Fabrizio Da André nei confronti della società. L'uomo non è soltanto vittima dei propri errori o del proprio destino.

E soprattutto vittima degli altri, dell'ipocrisia, dell'odio, della malafede dei prossimo. Così la cortigiana sfiorita, di stecchettiana memoria, dei «Testamento», costretta a vendere immagini sacre all'angolo di una chiesa perché il consorzio sociale non le lascia altra possibilità di sussistenza; così quel personaggio di cui si racconta ne «Il gorilla», ucciso dalla corriva «giustizia» degli uomini: «Gridava mamma come quel tale / cui il giorno prima come ad un pollo / con una sentenza un po' originale / aveva fatto tagliare il collo, La morte (dei sogni, dell'amore, della dignità). La guerra, l'odio, il marciume che è dentro e intorno a noi.

Sono questi, dunque, i sassi che Fabrizio semina lungo l'itinerario dei propri personaggi, per insegnare a noi a camminare. Sono i capisaldi della sua tristezza - e della sua speranza - di artista profondamente partecipe della realtà. Di uomo che vive la vita degli altri uomini, vi si cala fino in fondo e la soffre senza alternative, totalmente. Il fatto che, per esprimerla, egli non di rado ricorra all'umorismo non significa nulla. E, il suo, un humour sempre disponibile ai richiami dei tragico, quotidiano o no. Nessuna voglia di ridere: semmai il sarcasmo «cattivo» di Cecco Angiolieri. Un sarcasmo che è l'alibi dell'amarezza, che ha l'infinita tensione di un pianto rattenuto.

In sintesi il disco di Fabrizio che espone più di tutti l'anima del Cantastorie.

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