Ci sono album, così come ci sono film, che nonostante il passare del tempo e degli anni, nonostante il mutare delle generazioni, riescono sempre a rimanere unici tanto da venire giustamente definiti 'cult'.

È il caso, ovviamente, di questo famosissimo disco di Fabrizio De Andrè, "Vol. 3", che, nonostante sia datato 1968, non ha mai perso, e mai perderà, nemmeno un grammo della propria incontenibile maturità musicale.

Insieme a "Creuza de ma" e "Anime salve" è forse il capolavoro di De Andrè. Incontenibile e micidiale, "Vol. 3" rappresenta l'estrema poetica filosofica adottata da De Andrè in oltre trent'anni di onorata carriera: c'è l'amore verso la vita e l'attenzione, spuria e lucidissima, nei confronti dei reietti e degli umili, degli emarginati e dei perdenti. C'è l'ironia e la misticheggiante satira avanguardistica, l'affresco storico e di costume, e la condanna verso qualsiasi tipo di guerrra e fondamentalismo. E non è un caso, che ci siano voluti due album (carini, ma non eccezionali) perchè De Andrè potesse mettere definitivamente a fuoco le proprie convinzioni e le proprie condizioni.
Basterebbe la giallastra foto di copertina per capire che non ci troviamo di fronte a un dischetto mordi e fuggi, ma ad un qualcosa di serio e rispettabilissimo. "Vol. 3" contiene, tra l'altro, quello che può essere considerato come il brano più famoso e sofferto di De Andrè: "La canzone di Marinella". Storia viva e urgente (come direbbe Jannacci) di una prostituta uccisa brutalmente da "un re senza corona e senza scorta", finita, come i poeti francesi insegnavano, a volare in cielo su una stella. Più che una canzone una solenne poesia di ampissimo respiro epico: il soffio, quasi etereo, di una chitarra e la voce, bassa e impostata, di De Andrè. Un ritratto accorato e formidabile di un personaggio umile e secondario, usato come piacere e non come diritto, storia eccezionale, e perciò indispensabile, di un reietto ai limiti della subordinarietà.

De Andrè, con il passare degli anni, decise di riproporla in altre molteplici versioni: la più significativa fu la versione in duetto con Mina nel 1998, l'originale però, indubbiamente, è di gran lunga la versione alternativa migliore. Ma De Andrè è anche un grandissimo cantore ilare e gioviale (ha sempre priviliegiato poco questo sua buffo aspetto caratteriale), e "Il gorilla", traduzione da Brassens, e "S'i' fosse foco", da un sonetto di Cecco Angiolieri, sono esempi armoniosi e vitali di un umorismo grottesco e affascinante che ha, come scopo primario, l'irrisione e la satira graffiante: "Il gorilla" punta tutto sulla ridicolaggine e la derisione nei confronti del potere ottuso (il giudice), "S'i' fosse foco" è invece, una delicatissima rilettura di un celebre sonetto duecentesco in cui, tra il serio e il faceto, si scherza con i miti, i papi, i santi, le madri, i padri, il pudore e il sesso.
La tragedia però, è sempre dietro l'angolo: perle indiscutibili sono capolavori come "Amore che vieni, amore che vai", "La guerra di Piero" ma soprattutto "La ballata dell'eroe", tristissima storia di un soldato morto giovane per difendere la patria (così gli hanno imposto i superiori) e una fidanzata, forse moglie, che lo aspetta invano sdraiata su un letto color speranza ("...ma lei che lo amava aspettava il ritorno di uomo vivo, di un eroe morto che ne farà, se adesso, nel letto, le è rimasta alla gloria, una medaglia alla memoria."). Una ferma e lucidissima condanna nei confronti della barbarie della guerra in Vietnam.

"Il re fa rullare i tamburi" e "Nell'acqua della chiara fontana" sono due melodicissime ballate storico sociali, condite da suspense, erotismo e intrighi, mentre la mestissima "La ballata di Michè", più che una canzone è un film, una storia tragica e crudele di un uomo, accusato di omicidio, che decide di impiccarsi per la vergogna e il disonore. De Andrè canta meravigliosamente, e i pochi semplicissimi accordi quasi ebbri di ubriacante tragicità, non possono non rimanere impressi nell'animo e nelle coscienze (di chi, almeno, possiede un'animo e una coscienza). Nonostante tutto, c'è ancora spazio per lo sberleffo e l'irrisione: "Il testamento" è l'ennesimo brillante capolavoro deandreiano, un misto di burlesque e grand guignol sempre in bilico tra divertisseiment e critica sociale.

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