1992. I tre losangelini Failure danno alle stampe "Comfort". In cabina di regia c'è un certo Steve Albini. I tempi sono maturi, anzi di più. Perfetti, direi. A Seattle trionfa il "grunge". Never Mind ha fatto sfracelli. Cobain è un semi-dio.
Ken Andrews (voce e chitarra) e soci le sanno scrivere le canzoni. Miscelano hard rock, melodie pop, qualche riff alla Pixies e dissonanze moderate. Il cantato ti rimane pure in testa. Ricorda Kurt, meno viscerale ed esplosivo, ma lo ricorda eccome. Gli ingredienti per far soldi a palate ci sono tutti. Io, ai tempi, ci avrei scommesso un testicolo su questi Failure, ma per fortuna nel 92 avevo 7 anni. Per fortuna? Si, perché mi troverei nel 2012 con una delusione in più e una palla in meno.
Un disco onesto. Non revival grunge senza cuore a la Bush o Silverchair. Voglio dire, si è scomodato pure Albini. Un album ancora in tempo per suonare nirvaniano. "Macaque" parte con un riff zeppeliniano, per poi trasformarsi nella tipica cavalcata "strofa pulita/ritornello distorto". "Something" apre con un arpeggio dissonante e, da lì a poco, esplode in puro power pop. Roba che si canticchia con facilità estrema, insomma. "Screen Man" vagamente noise e claustrofobica ti tira in faccia un riff pixisiano quando meno te lo aspetti.
Una band con un'anima, nonostante derivativa da far paura. Un disco più che buono, che svolge a dovere il suo compitino.
Se la vostra copia di Never Mind è talmente consumata da non girare più neanche in un acceleratore di particelle subatomiche, date un ascolto a questo Comfort. Non un capolavoro di originalità, ma sicuramente un'ottima opera. Da gustare tutta d'un fiato.
(E, nel mio caso, un promemoria fondamentale: mai scommettere i gioielli di famiglia).
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