Come promesso alla mia splendida ragazza eccomi qui che provo a recensire l'ultima fatica dei Fall Out Boy. E chi saranno mai, vi starete chiedendo? Domanda più che legittima che mi sono fatto anch'io quando li sentii nominare nel telefilm "One Tree Hill", ebbene si tratta di un gruppo emo punk-pop nato dalle periferie di Chicago e autore di un esordio su major (e che major, visto che si tratta della Island) da next big-thing con il loro "From Under The Cork Tree" del 2005. Accolti con un certo scetticismo dal sottoscritto, amante dei Clash e del new punk Anni'90 californiano, sono stati in grado di farmi ricredere abbastanza in fretta.
Il quartetto, classico nell'impostazione di chitarra solista-chitarra ritmica-basso-batteria, musicalmente ricorda molto da vicino Bad Religion e Offspring (fortunatamente sono molto più somiglianti ai primi...) ed é composto da Patrick Stump alla voce ed alla chitarra (voce intonata, ma forse un po' troppo autocompiacente), Peter Wentz (liricista, modello per Rolling Stone ed attore) al basso, Joe Trohman alla Gibson solista e Andrew Hurley alla batteria. Quest'ultimo elemento è forse il più interessante di tutta la formazione, in quanto molto abile nei cambi di ritmo e dotato di una potenza tale da fare invidia a Dave Lombardo degli Slayer. La line up non esattamente ortodossa per gli standard punk è costata al gruppo una notevole ostilità negli ambienti underground che li ha spesso considerati, non sempre a torto, come i Backstreet Boys tatuati...
Ma 'sto album, mi direte voi, com'è? Ecco che vi rispondo. Miscelando i Sum 41, i Bad Religion ed i Green Day i "nostri" cercano abbastanza facilmente di ritagliarsi uno spazio proponendo canzoni cantate (scusate la ripetizione) con accento e tonalità da Billie Joe Armstrong, linee di basso a velocità esplosiva come quelle proposte nelle canzoni del gruppo del "signor Lavigne" (eh! eh!) e chitarre tecnicamente impeccabili specie nei richiami delle corde e negli incroci, anche se il sospetto delle sovraincisioni si aggira spaventoso ed inquietante (sarà per questo che non hanno ancora pubblicato un vero e proprio live?). Le tracce sono tutte caratterizzate dal clichè intro lenta, voce in sordina, basso pulsante in inserimento e mega ondata di watt e potenza con batteria e chitarra galoppanti. Meritano una menzione le prime tre canzoni: "Thriller" (ottimo ingresso di batteria e basso e ritornello che ti si ficca in testa, con intro parlata di Jay-Z), "The Take Over, The Breaks Over" (un ottimo ritmo funky alla Flea&Frusciante) e il singolo successone "This Ain't a Scene, It's An Arms Race" (partenza lenta, titolo ripetuto come un mantra e poi discesa vorticosa sulle sette corde di Trohman). Le altre undici tracce sono classico pop-punk con l'eccezione dell'incursione gospel in "Hum Halleluya", ma tutte meritevoli di attenzione anche da parte degli snob come noi nostalgici del punk 1977.
Tirando le somme non è un album che cambierà la vita a nessuno, ma farà sicuramente piacere a tutti lanciarsi in uno sfrenato moshpit seguendo le melodie forti e le ritmiche precise e fresche della band americana. Unico neo, oltre ad una ripetitività atavica per questo genere di musica testosteronica, sono i titoli troppo lunghi che non si fanno imparare, per cui un appello lo rivolgo a Mr Wentz: secondo lei perchè Pearl Jam, Clash e Green Day si affidano a titoli di non più di cinque parole? Ci pensi... nel frattempo ascolteremo questo bell'album.
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