Il titolo di questo disco del 1971 dei Family si riferisce alla caratteristica di contenere canzoni affatto nuove bensì già in repertorio, pescate fra i singoli pubblicati al di fuori degli album, ai loro lati B ugualmente inediti su lungo formato, ma soprattutto alcuni parziali rifacimenti e rimissaggi, eseguiti coinvolgendo i nuovi strumentisti subentrati di recente in formazione.
In tutti questi anni non sono ancora riuscito a mettere a fuoco la mia personale idea e valutazione a proposito di questo gruppo dalle sfaccettate, cangianti musiche. Al primo approccio Family sembrerebbe un ensemble folk rock britannico sul modello dei Fairport Convention però c’è quella voce… così animosa, vibrante, drammatica, accesa e destabilizzante, così poco folk insomma. Eppoi gli assoli di sax, gli intarsi di vibrafono… un guazzabuglio rock jazz rhythm&blues costantemente semiacustico e semipsichedelico, ma sempre diverso da canzone a canzone.
Il super vocalist Roger Chapman morde il freno negli episodi più quieti, in questo disco rappresentati soprattutto dalla stupenda “Today”, spiazzante miscuglio di arpeggi e voce modello primi Genesis (che dai Family e dal loro cantante attinsero assai), lamentosa chitarra lap steel e smazzolamenti di piatto terribilmente simili rispettivamente a quella Gilmouriana e quelli Masoniani su “Saucerful of Secrets” e “More”, cori assai zoppicanti, atmosfera intimista, imprecisa, naif…e deliziosa! Un profumo di arte istintiva e sobria.
Altri momenti delicati sono la descrittiva “Hometown” e la ballata acustica un poco pop in stile Jethro Tull “No Mule’s Fool”, ma è negli episodi più serrati e ritmici che l’ardente estroversione di Chapman si innesca e inonda di passione e asprezza il tranquillo trotterellare dei suoi colleghi strumentisti. L’apripista “Hung Up Down” è esplicativa a riguardo: qualche collegamento coi coevi Jethro di “Benefit” soprattutto per gli svolazzi di flauto (deboli, al confronto) ma il poderoso canto di Chapman, il suo vibrato veloce, roco, drammatico comunicano ben altra tensione e stavolta è il gruppo di Anderson a soccombere al confronto. Lo si ascolti anche in “Observation From a Hill”: uno stile unico, inquietante.
Gli strumenti che restano più impressi sono innanzitutto lo scaracollare acustico e/o elettrico di Charlie Whitney un chitarrista tutto istinto, impreciso ma passionale, anche troppo tirato via (su “Drowned in Wine” l’elettrica in staccato è proprio scordata! Va be’ che tutto il brano è da ubriachi, titolo compreso…) e poi il violino, veramente emozionante nel suo profondo riff a bicordi su “Peace Of Mind”. Whitney è, fra le altre cose, quello che ha ispirato Jimmy Page nell’uso sul palco della doppio manico 6 e 12 corde, strumento che si può ammirare proprio in questa copertina.
Mi coinvolgono molto di meno invece gli intarsi jazz di pianoforte, sassofono e vibrafono… quest’ultimo sempre assai avulso dal contesto, ad esempio in “Good Friend of Mine” . A parte l’ampia tavolozza di strumenti l’album non si fa mancare nulla in quanto a varietà compositiva: “The Cat and the Hat“ è un boogie semiacustico, “See Through Windows” una faccenda piuttosto sinistra alla Black Widow addirittura, “The Weaver‘s Answer” in chiusura una delle loro pagine più note, quasi messa qui a bella posta per elevare l’appeal della raccolta.
Non verrò mai a capo dei Family: sono musiche che per qualche ragione non mi restano in testa, inafferrabili; talvolta mi tediano, in altri momenti le trovo deliziosamente oneste e personali.
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