Strano mondo quello di DeBaser: infestato in ogni dove da recensioni sui Dream Theater, finisce per trascurare la discografia dei “cugini” Fates Warning, snobbando un lavoro fondamentale come “Perfect Symmetry”.

Emblematico fin dalla copertina, “Perfect Symmetry” è l'album che definisce gli standard del sound della maturità per la band americana: prendendo lo slancio da quanto abbozzato nel precedente “No Exit”, che aveva segnato una brusca svolta progressiva nello stile della band (nata con i contorni di un interessante heavy metal tributario della NWOBHM più classica), Jim Matheos e soci confezionano il primo di una cospicua serie di capolavori che li lanceranno a merito fra i grandi del progressive-metal, genere in quegli anni ancora in via di definizione.

Siamo infatti nel 1989, ancora nella preistoria del metallo progressivo, prima ancora che un lavoro come “Images and Words” coniasse un nuovo genere musicale.

Il “metal” dei Fates Warning, in verità, prima ancora di essere progressivo, è un metal raffinato, ricco di sfaccettature, forte, fortissimo della tecnica elevata e del gusto sopraffino dei suoi componenti.

A dare una marcia in più è indubbiamente il drumming stra-intricato della new-entry Mark Zonder, reduce dai seminali (e ben più pestoni) Warlord: il deforme batterista è un vero mago dietro alle pelli, ed è in grado di impreziosire con il suo tocco inconfondibile le composizioni già ricche di spunti della formazione, che a questo giro raggiunge il top: le chitarre di Jim Matheos e Frank Aresti ed il basso di Joe DiBiase sono una cosa sola, mentre il virtuoso vocalist Ray Alder, alla sua seconda prova con la band, si trova finalmente a suo agio fra le intricate trame strumentali dei suoi compari, non perdendo da una lato la capacità di graffiare, ma al contempo raffinando il suo stile sempre più improntato su umori sofferti e lacrimevoli.

I Fates Warning si ingrigiscono, perdono il piglio fantasy dei primi album ed assemblano un metal introspettivo ed esistenzialista, indubbiamente tributario delle cupe visioni dei connazionali Queensryche, che l'anno prima avevano cambiato il volto del metal con l'epocale “Operation: Mindcrime”.

Nei soli 42 minuti di durata di “Perfect Symmetry” i Fates Warning non ambiscono ad ergere un monumento che possa cambiare le sorti dell'umanità, ma iniziano a scavare silenziosamente e con dovizia certosina il loro oscuro tunnel nelle tenebre della psiche umana e della società americana, intrisa di rigide geometrie: una “perfetta simmetria” in cui ogni impeto vitale viene compresso e svilito. La stessa musica dei Fates Waring è definibile come una fluida umanità che cerca di scavarsi un varco, urlando e piangendo, fra gli spigoli e gli ingranaggi acuminati di una gelida macchina programmata per reiterare lo stesso movimento. La bellissima copertina, in un affascinante bianco e nero, ne è la più perfetta espressione.

I brani si muovono entro durate contenute, conservano spesso la forma canzone, non si abbandonano mai a sterili funambolismi. Dietro a canzoni perfino orecchiabili, si cela tuttavia un gran lavoro: un lavoro intensivo è quello dei Fates Warning, che ritagliano soluzioni improbabili in spazi ristretti, operano a più livelli, intarsiano scale ed armonie irriproducibili in architetture oblique comandate dal battito in continua evoluzione del piovresco Zonder. Fondono fraseggi acustici, sublimi assoli e chirurgica elettricità in un intrigo di suoni e sfumature (milioni, miliardi di sfumature), un intrigo talvolta rischiarato da melodie estirpate direttamente dal passato della band: si pensi a tal riguardo all'assolo di chiara stampa maideniana che apre l'opener “Part of the Machine”, sei minuti di arcigna nevrosi metallica. “Through Different Eyes”, destinata a divenire un classico del repertorio, ci regala un pregevole ritornello, come del resto sono apprezzabili gli acuti strappa tonsille nel ritornello della successiva “Static Acts”, l'episodio più aggressivo del lotto. Ma non è ovviamente sulla forza e sull'orecchiabilità dei ritornelli che si costruisce il valore di questo album, che si presta alle nostre orecchie come un mantra cervellotico contraddistinto da uno spiccato gusto melodico ed una tecnica mai sterilmente scolastica: un meccanismo di accartocciamento emotivo che finisce per assottigliare le differenze fra i diversi brani, più o meno impantanati sulle stesse dinamiche, e che per questo richiedono svariati ascolti per essere compresi.

Solo “At Fate's Hands” sembra volersi abbandonare a tentazioni più propriamente progressive: per metà evocativa ballad (con tanto di assolo di violino), per metà intrigo furibondo di chitarre e tastiere, il brano vede la presenza di un certo signore di nome Kevin Moore, all'ora pressoché sconosciuto.

I successivi lavori, “Parallels” e “Inside Out”, raffineranno quanto seminato da questo “Perfect Symmetry”, ma non ne sapranno eguagliare l'efferatezza e il livello di ispirazione, preferendo peccare in ridondanza, formalismi ed arrangiamenti pomposi. I tre album tutt'insieme comporranno una sorta di trilogia ideale che chiuderà un'altra stagione della band: i fondamentali Aresti e DiBiase si perderanno per la strada, mentre la triade sempre più compatta del mastermind Matheos e dei suoi fidi scudieri Alder e Zonder uniranno le loro incredibili forze per abbracciare il sound sempre più studiato, minimale ed angoscioso del capolavoro “A Pleasant Shade of Grey”, uno degli album più significativi del panorama progressive metal degli anni novanta.

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