Finalmente un Fellini sinceramente psichedelico! Il continuo sbracamento onirico di tutta la sua opera precedente (ma anche poi nei successivi film) trova redenzione in Giovanni Giacomo. Ed in questa entità che è "Il Casanova di Federico Fellini" che il regista per la prima volta abbandona pose, discriminazioni, compiacimenti, non rincorre salvazioni psicoanalitiche che nei lavori precedenti rappresentavano il "tutto quello che non è qui", una visione maramalda di cose che non stanno da nessuna parte, e Fellini lo sapeva delle sue bolle di sapone. Sapone con cui qui si è lavato da quella puzza d'artista di omologazioni di sogni dozzinali dettati dalla vanità: "Io sono molto sensibile, è fuori dubbio" dice Casanova-Fellini ad un certo punto della pellicola, confortandoci che il coraggio impersonale è finalmente venuto a galla.

Cosicché le ginocchia di Federico con Giacomo non fanno più giacomo-giacomo da quel buco nero intellettual-borghese in cui si era cacciato, qui la tenzone non è più un capriccio, qui il romagnolo si dà concretamente gli schiaffi davanti allo specchio abbandonando il dualismo della competizione. Ed in effetti è sorprendente come con "Il Casanova" non solo se ne sia tirato fuori da quei giochetti da gabinetto analitico, ma si sia fatto letteralmente fuori. Trasforma in oro le sue menzogne circensi facendo parlare ceco nell'inizio della scena dei saltimbanchi, non considera più e la conquista più dorata è che non si ammicca più, infliggendo cecità all'organ(ic)o.

E qui riesce ad arrivare alle sparizioni che la vera arte richiede: l'artista non è autore di alcunchè. Infatti nella sua filmografia questo lavoro del 1976 è stato sempre additato come misconoscere i precedenti stereotipi visionari che piacevano tanto alla massa intellettuale, che non erano nient'altro che consolatori, addobbati con cotillon un po' più sofisticati per nascondere conformismo elitario. Qui Fellini per l'esterno non era più "quel" Fellini, avendo eliminato, cosa difficilissima, la complicità di casta e il proselitismo lecchino e con questa pulizia conquista la vera solitudine che permette di sondare l'impersonale. Gli dà una bella mano l'oblio interiore del Casanova. La personale recondita esigenza Fellini ce la fa vedere per quello che è: un'epilessia d'amore come quella che prende a Casanova nel momento dell'orgasmo, scatenata dalla paura che l'amore manchi il nostro bersaglio.

Più che messa in scena c'è una messa in atto, veridicizzata da quei sacchi per la spazzatura usati per simulare il mare. La pseudo profondità ammantata d'anemica essenza viene superata nella non rappresentazione della vita del veneziano, nel cercare di filmare, riuscendoci, gli umori e le sensazioni di cotal totale confessione. Si delega al robot "uccel di bosco" il fardello sessuale e si impersonifica l'inganno dell'ego con quelle zucche a suggerir continue vulve che roteano in un perpetuum mobile sul quel disco al centro della tavola imbandita.

La purezza della solitudine del Casanova è commovente a tal punto che alla fine del film quasi a stento si sopporta. Struggente un vuoto si apre in ognuno di noi nell'abbraccio con la donna meccanica, cercando con quel roteare, proiettato nel continuare all'infinito, una comunione coi movimenti celesti. Fellini coglie in Casanova l'annullarsi nel concedersi, riuscendo a sottrarsi dal limbo del suo egoismo, riuscendo a capire l'abbandono reale del seduttore che realizzava la natura feroce delle donne.

I passati capriccetti estetico elitari sono mondati anche dall'aiuto della musica di Nino Rota, mai così esoterica. Non c'è più l'inquadratura ad effetto, si dirada la nebbiolina onanistica, si è entrati in una zona invisibile, non si gioca più con l'arte, si cerca di essere direttamente "capolavori". La cura che Gigi Proietti ha prodotto nel doppiare il "cicisbeo" corrobora l'evanescente seduzione dell'insieme.

Il feeling animico che ho col film è suggellato da tre simpatici episodi della mia vita: il primo dalla conoscenza di una finlandese, bellissima, con cui ebbi una relazione che a un certo punto della quale si scoprì aver partecipato come comparsa nella scena della villa patrizia romana. È lì seduta su un tavolo che dondola sorridente la gamba la mia cara amica della terra dei mille laghi. La seconda fu quando mi trovai per lavoro negli studi di Cinecittà e lì in un magazzino che custodiva vecchie scenografie li vidi: erano appesi quei lampadari dalle mille candele del teatro di Dresda. La terza, dulcis in fundo, è di aver incontrato a Praga, la mattina in un bar del centro, Donald Sutherland e di aver parlato brevemente con lui, complimentandomi per la sua carriera e sottolineando la sua magistrale interpretazione di Casanova avendo ulterior modo di cogliere ancora in lui, oltre ad una disponibilità e gentilezza disarmante, quel lampo negli occhi che in diverse parti del film godiamo.

Ricorda Sutherland del venir trattato sempre freddamente da Federico, per tutta la durata delle riprese. Alla fine dell'ultimo ciak Fellini si avvicinò a lui stringendolo in un lungo abbraccio e ringraziandolo devotamente, provocando in Donald un pianto dirotto. Spurio dall'aspettativa di un boomerang di momentanea approvazione esterna, Federico implode qui sincera evanescenza, dove l'effimero permane e si cristallizza in un unguento miracoloso e fa della fatiscenza dell'essere le sue colonne del tempio. Nel déjà vu della fine il buio sì, ma non c'è la parola fine al termine del film. Nel delirio per la meraviglia della realtà alfin le lacrime, tante...

Orfano della vita il caro Giacomo... per sempre: "Tornerò mai più a Venezia?"

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