Il Sussurro della Sòla.

Mai finale fu tanto preveggente e saggio: “Se ci fosse un po’ di silenzio, se tutti facessero un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire” dice il Paolo Villaggio, caricatura ormai di sé da sempre, alla chiusura del film.

Un film, “La Voce della Luna” (1990) di Federico Fellini che, diciamola tutta, se lo poteva tranquillamente evitare. Tratto dal romanzo “Il Poema dei Lunatici” di Ermanno Cavazzoni, che è decisamente molto meglio del film (letto 2 volte in 3 mesi!!), questo “testamento” cinematografico del maestro riminense risulta un’opera irrisolta, confusionaria e una delle più deboli di tutta la sua carriera.

Un film, nelle intenzioni visionario e onirico, sulla disgregazione della società contemporanea e sulla confusione dei linguaggi in un circo di incomprensioni dove i personaggi girano a vuoto alla ricerca di un centro di gravità permanente senza trovarlo mai.
Si narrano le vicende bislacche di un Benigni stralunato e un po’ Pierrot che incarna “l’animo bambino” e poi c’è il girare a vuoto di Villaggio/Gonnella che rappresenta l’adulto diffidente e arcigno in perenne lotta col mondo e sospettoso di tutto e tutti (le due anime del regista? La doppia anima di ognuno di noi? due fake del regista?).

Insomma, le basi ci sarebbero state tutte per ricavarne una storia maldestra con un minimo d’anima e invece… il regista si sfilaccia. Perde i contorni della storia e si fa prendere la mano in lungaggini, scene inutili, acquerelli mal riusciti e pedanti (la fuga sui tetti) per non parlare dei buchi enormi di sceneggiatura che in effetti, non c’è mai stata (si narra che Fellini improvvisasse al momento dialoghi, scene e movimenti di macchina, come un pittore sulla sua tavolozza!), ricomponendo come può una storia davvero prolissa, incongruente in molti tratti e a dir poco noiosa e infarcita di retorica (la scena della luna catturata, l’atto di accusa alla reclame…roba più che trita e già ampiamente trattata in altri film ben più riusciti).
Per carità. Al Gran Maestro ormai tutto si poteva chiedere…anche di fare un film più poetico che narrativo, e in effetti, se non ci si lascia deviare dal fatto che questo non è un vero e proprio film, ma una raccolta più o meno assemblata alla bell’e meglio di frammenti onirici e poetici, su un’esile struttura narrativa il più delle volte inesistente… ecco, se si dimentica tutto questo, il “film” ha qua e là delle visioni memorabili e davvero fantasiose, come partorite dalla mente di un’anima candida, quasi un bambino innocente piuttosto del vecchio ormai oltre sessantenne regista naturalizzato romano.

Come non ricordare infatti la scena del walzer di Villaggio/Gonnella nella discoteca (…bella si ma luuungo come la fame) oppure il monologo di Benigni davanti al pozzo nella scena iniziale che si chiede come un simil-pinocchio ante litteram “Dove vanno i morti? Dove vanno le scintille del fuoco? E la musica, quando si spegne, dove va?”.
Insomma, un film dalla struttura completamente dissolta e sparpagliata che a tratti fa davvero incazzare anche per quella scelta per molti versi assurda di ridoppiare ogni dialogo con dei fuori-sinc davvero imbarazzanti e fastidiosissimi.

Un film del tutto prescindibile dalla monumentale opera del Federico Nazionale. Sarà un caso che dopo sto mezzo flop non troverà più nessun produttore a credere in lui? E che, preso dallo sconforto, si chiuderà sempre di più in se stesso fino al sopraggiungere della morte da lì a 3 anni?
Mah… sarà stato anche tutto sto Gran Genio (e Dio solo sa quanto ho amato “La Strada”, “8 e ½”, “Amarcord”, “La città delle Donne”, “E la nave va” per citare solo i miei preferiti…) ma per me, questa mezza scivolata proprio alla fine del suo operato poteva benissimo evitarsela. Salvo giusto la locandina disegnata dal grandissimo Milo Manara e poco altro. Piuttosto… procuratevi il romanzo di Cavazzoni: quello si che vale davvero la pena!

 

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