Bentrovati ragazzi/e, vorrei dedicare questa ennesima tappa alla riscoperta del cinema italiano "minore" a due indimenticate icone del soft core italiano di fine anni '70 - Gloria Guida e Lilli Carati - e, contemporaneamente, ad uno dei registi di cinema di genere più bravi, ma negletti, della nostra microstoria in celluloide: Fernando Di Leo (1932-2003).

I tre personaggi in questione unirono le loro forze in questo "Avere vent'anni" (1978), film che, a tutt'oggi, si fregia della nomea di opera maledetta, martoriata a livello distributivo, per il carattere scabroso dei temi trattati e per la violenza, psicologica prima ancora che fisica a mio parere, che il regista d'origine pugliese rappresentò in questo lavoro.

Metto subito in chiaro che "Avere vent'anni" non può essere catalogato - a dispetto delle attrici impiegate - come un film di genere erotico, utilizzando piuttosto le icone della sensualità nostrana per un discorso più complesso, e privo di sconti, sulla generazione del '77, decisamente meno pubblicizzata, ricordata e glorificata di quella del '68, fors'anche per essere svanita nel riflusso e nell'eroina, e sul costo dei percorsi di emancipazione dei giovani (donne in particolare) all'interno di una società fondamentalmente conservatrice come quella italiana dell'epoca.

Nel film, le abbondanti nudità della Guida e della Carati non sono infatti utilizzate per solleticare modeste prurigini adolescenziali, ma per connotare le vicende di due giovani ragazze, un po' ingenue ed un po' sbandate, entrate in una "comune" di fine anni '70: ambiente non più ideologizzato come nel decennio precedente, la comune, gestita da tal Nazzareno (Vittorio Caprioli) è piuttosto un luogo di raccolta di reietti borderline, fra cui un tossico sensuale (Ray Lovelock), un mimo assolutamente impermeabile alle vicende del mondo (Leopoldo Mastelloni) ed altri soggetti dalle dubbie attitudini e dalle nulle prospettive.

Nella comune, le due ragazze sperimentano ogni forma di promiscuità, ogni tipo di esperienza culturale alternativa al canone patriarcale e maschilista (lettura del poema "Scum" compresa), alla ricerca di un nuovo baricentro ed equilibrio, sostitutivo di quello rappresentato, in un caso, dalla famiglia d'origine, nell'altro, dalla magra vita di orfana e donna di compagnia. Si guadagnano da vivere, contribuendo al mantenimento della struttura, come improbabili venditrici porta a porta di enciclopedie (anche qui demolendo la cultura patriarcale), fino a quando la comune non viene sciolta dopo l'ennesima retata della polizia: rimessesi in viaggio, nella ingenua convinzione di poter affermarsi individualmente ed eccentricamente nel mondo, dovranno fare i conti con una banda di bruti violentatori in un tragico ed agghiacciante finale (sconsigliato ai sensibili).

Diciamo subito che il film risulta riuscito a metà, non potendo essere catalogato fra i miglior lavori del regista, risultando più interessante per il messaggio che per il contenuto: contenuto che possiamo definire quantomeno raffazzonato, a causa di una trama talvolta inorganica, talaltra lenta e piuttosto noiosa, per una rappresentazione dei personaggi a volte superficiale e bozzettistica (tutti i membri della comune, lo stesso commissario di polizia interpretato da un Giorgio Bracardi (!) che malamente scimmiotta il Volontè di "Indagine...", il vecchio professore a cui la Carati propone l'enciclopedia e qualcos'altro), per dei dialoghi a volte imbarazzanti, per la violenza sadica e volgare del finale.

Differente, invece, il discorso che riguarda il messaggio che questo film ci trasmette a distanza di trent'anni dalla sua tormentosa uscita, da cogliere in molteplici prospettive.

Vi è certamente l'utilizzo della beltà (più che dei talenti) di Guida e Carati per rovesciare il senso di tanto cinema erotico dell'epoca, verificando le intuizioni che già Pasolini fece proprie nel Decameron e, soprattutto, in Salò, circa la mercificazione dei corpi ed il loro consumo da parte dei detentori del potere, nelle loro mille fattezze (qui, un branco di delinquenti); ma, andando oltre, può scorgersi in "Avere vent'anni" una rappresentazione drammatica dei conflitti intergenerazionali e del rapporto di azione-reazione tipico di tutte le società organizzate: il promotore del cambiamento, l'agente che spezza la tradizione, il paradigma culturale del passato, le abitudini ed il conformismo sembra dapprima averla vinta, per essere poi fagocitato, distrutto, letteralmente smembrato dagli anticorpi che ogni forma di potere (legale, o, non così paradossalmente, illegale) reca in sé per garantire la propria autoconservazione.

Le due ragazze, rispetto al contesto sociale esterno alla comune, sembrano dunque l'incarnazione della Eva tentatrice, della figura "diabolica" che, letteralmente, cerca di separare la Vita dalla Tradizione, risultando destinata a soccombere, ad essere annichilita, in questo fallimentare tentativo.

Discorso che, per traslato, si può estendere a tutti i rappresentanti della generazione di Guida e Carati, quei nati negli anni '50 che, dopo l'esplosione creativa di fine anni '70 - finirono per soccombere nel decennio successivo senza diventare mai adulti: da Andrea Pazienza restando alle nostre latitudini, oppure a Keith Haring, per trascendere a livello globale.

Da notare come gli stessi artefici di questo film ebbero, nella vita reale, sorte non meno singolare, e simbolica, di quella dei personaggi rappresentati in avere vent'anni: Carati visse gli '80 da cocainomane e stelletta hardcore, Guida da ritirata madre di famiglia al fianco del maturo Giorgio Guidi, Di Leo smise progressivamente di fare cinema, in un'epoca forse incapace di comprendere i tentativi di spezzare i linguaggi precostituiti.

Se "Avere vent'anni" fu un problema, figuriamoci averne trenta o quaranta!

Paradigmaticamente Vostro,

Il_Paolo

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