Definito da Quentin Tarantino, non senza una qualche esagerazione, il Don Siegel italiano, Fernando Di Leo è certamente il migliore autore di polizieschi mai avuto nel nostro paese. Un genere che, quasi come il western, pareva non appartenerci. I precedenti illustri erano stati "Nel nome della legge" (1949) di Pietro Germi (assolutamente un western fordiano ambientato in Sicilia) e sempre di Germi "Un maledetto imbroglio" (1959), tratto da "Quel pasticciaccio brutto de via Merulana" di Carlo Emilio Gadda. Vado a memoria e quindi avrò sicuramente saltato qualche titolo. Non dimentico il bellissimo "Il bivio" (1950) di Fernando Cerchio, con un Raf Vallone in stato di grazia, una vicenda poliziesca di corruzione sullo sfondo della guerra.

Dopo svariate collaborazioni nel mondo del cinema di genere (la più celebre "Per qualche dollaro in più"), il regista pugliese esordisce dietro la macchina da presa con "I ragazzi del massacro" (1969), racconto tratto da un fatto di cronaca dell'epoca riguardante un presunto stupro e omicidio collettivo da parte di una scolaresca nei confronti di un'insegnante.

Con "Milano calibro 9" Di Leo raggiunge lo zenith della sua carriera e realizza il miglior film italiano del genere.

La vicenda narra di Ugo Piazza (un magnifico Gastone Moschin per la prima volta in un ruolo drammatico) che, appena uscito di prigione, viene perseguitato dagli uomini del boss chiamato "l'Americano", in quanto sembra essersi impossessato di una ingente cifra di denaro (300.000 dollari destinati al giro americano del narcotraffico) durante un giro di consegne. Piazza si dichiara innocente. Anche il commissario milanese (Frank Wolff) lo tiene d'occhio, in quanto è convinto anche lui che Piazza non sia estraneo alla vicenda, così da poterlo usare come esca per il boss, in modo da fargli fare un passo falso.
A Milano Ugo ritrova la sua donna, Nelly (Barbara Bouchet, un fiore di bellezza), strip dancer di un night; anche lei chiede se Ugo  ha il denaro ma questi continua a negare. Ugo promette a Nelly che, una volta uscito da quella morsa, andranno a vivere a Beirut (Bush non era ancora presidente all'epoca...).
Ugo ritrova anche il suo vecchio padrino ormai cieco (Ivo Garrani), accudito da Chino (Philippe Leroy), un killer estraneo ai giri di mafia...

Non vado oltre per non rovinare la sorpresa.

"Milano calibro 9" si ispira ai racconti del giallista ucraino/italiano Giorgio Scerbanenco, già preso come riferimento per "I ragazzi del massacro". La storia non è tratta dalla raccolta omonima ma da altri racconti, come "I milanesi uccidono il sabato".

Di Leo usa Scerbanenco soprattutto come ispirazione per le atmosfere in cui si svolgono le vicende; raramente come in questo film Milano è livida e nebbiosa e non si rimpiangono nè San Francisco nè New York. Anzi, l'ambientazione nella metropoli più metropoli d'Italia risulta essere un valore aggiunto per questo importante capitolo del genere. I titoli di testa si aprono con una ripresa aerea della città all'alba, bluastra e livida sopra cui campeggiano i caratteri rosso fuoco dei titoli. Milano è vista come un cupo girone infernale, congestionata dai suoi palazzi.

A rinforzo di ciò le musiche di Luis Enriquez Bacalov, che riprende la formula sperimentata ne "La vittima designata" (1971, Maurizio Lucidi). Stilemi barocchi fusi al rock; se nel film di Lucidi trovavamo i New Trolls come ospiti ("Concerto grosso", ricordate?) qui sono gli Osanna a dare un contributo anche più sostanziale al sound complessivo dela colonna sonora.  

Gli attori sono pressochè eccellenti: di Moschin ho detto sopra. Stander è il rodato caratterista di sempre che abbandona il tono bonario consueto per creare un personaggio duro e spietato. La Bouchet non è decorativa e la sua bellezza è una marcia in più per la costruzione di un carattere ambiguo. Wolff e Luigi Pistilli sono efficienti nei ruoli del commissario parafascista e del vice Mercuri, di sinistra. Durante il film assistiamo a delle scene in commissariato dove la logica fatalistica e in fondo simile a quella dei criminali del capo si scontra con la concezione libertaria e l'analisi più approfondita delle radici della mafia e degli imprenditori collusi di Mercuri, atteggiamento che gli costerà il trasferimento.

Questi momenti del film sono considerati fuori contesto, apologhi dettati dall'epoca e dalle idee politiche di Di Leo.

Il momento "politico" veramente riuscito del film si ha invece quando, durante una passeggiata fatta da Ugo assieme a Chino e a don Vincenzo, quest'ultimo dichiara "Vedrai che faranno anche l'antimafia a Milano". Profezia verificatasi nella realtà...

Una parola a parte merita l'interpretazione di Mario Adorf, lo straordinario attore austriaco, volto noto nel cinema italiano di genere. Il suo Rocco Musco, l'uomo incaricato di sbrigare i fatti sporchi per conto dell'americano, è il carattere piu' riuscito del film. Rocco tormenta Ugo per tutto il film ma allo stesso tempo ne riconosce l'intelligenza e il coraggio. Adorf dona una grande carica espressiva a Rocco degna dei grandi caratteristi americani. In un film come "Quei bravi ragazzi" di Scorsese sarebbe figurato degno di un Joe Pesci, attore al quale somiglia tantissimo in fatto di interpretazione.
Infatti Di Leo regalerà il ruolo di protagonista ad Adorf nel seguente "La mala ordina", che trovo meno riuscito di questo ma imperdibile proprio per la maiuscola performance di questo infaticabile attore che sembra fatto di pietra vulcanica.  

Lo dico? Sì, anche qui spuntano le etichette del whiskey J. & B. e i portaceneri della Carpano e dell'acqua Boario; pratica deplorevole, che oggi fa epoca, vintage. Ma, dimenticando questo obbrobrio, siamo davvero difronte ad un cinema di genere maturo, non definibile come "poliziottesco". Un hard boiled italiano complessivamente convincente e sentito, che poco o nulla ha a che spartire con i suoi figli degeneri, commissari Betti o Monnezza che siano.

Se il percorso di degenerazione dovuto a sfruttamento intensivo del poliziottesco è forse stato più veloce di quello dello spaghetti western, le sue propaggini sono rimaste sottotraccia in certo cinema degli anni 90, vedi certi polizieschi alla Placido, Base etc... Ma siamo ben lontani dalla magia e dall'assenza di velleitarismi di film come questo, come dei migliori Girolami, Castellari, Massi etc.; all'epoca il cinema ambiva ad essere popolare nel senso più genuino del termine e gli autori più intelligenti si confrontavano con i clichè per dire una parola propria riguardo un modo di vedere il cinema e, consapevoli o meno, riuscivano a raccontare un'Italia più vera di certe analisi "impegnate"

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